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mercoledì 23 aprile 2014

Personaggi in cerca di 'attori'

Nella famosa opera pirandelliana i personaggi in cerca di autore convincono il  capocomico a rappresentare la loro storia ma vogliono interpretare personalmente il loro dramma senza che la parte sia recitata da attori. Le loro vicende e i loro sentimenti non possono essere tradotti in tutta la loro profondità dagli attori perché il palcoscenico non può replicare la realtà della vita. Non c’è forma che possa rispettare la dignità e la complessità delle sofferenze, dei pensieri, delle emozioni. La vera esistenza, nel suo mistero, nella sua tragedia, nella sua bellezza, fatica a essere narrata o recitata.
Sei personaggi in cerca di autore ha indagato in quella dimensione di passaggio dalla persona al personaggio, nel meccanismo teatrale di messa in scena e nella stessa disintegrazione dello spazio artistico. E’ una sperimentazione teatrale straordinaria per il tempo di Pirandello ma anche una grande analisi delle umane lacerazioni.
Talvolta mi capita di pensare a quanto invece capiti di avere in testa un personaggio, un poco tratto dalla nostra anima un poco dalla nostra fantasia o desiderio, e di immaginarlo nel corpo di un attore, sulla sua bocca, nei suoi gesti. Di vedere insomma il nostro ‘io’ da spettatori. Raffigurato da altri occhi e mosso da altre gambe.
Se sul palco non può salire ciò che autenticamente siamo può farsi teatro almeno la sua più lucida parvenza. Qualcosa che ci consenta di osservarci con l’illusione del distacco.
D’altra parte un altro percorso che tutti forse abbiamo provato è quello dell’immedesimazione. Quella sorta di altro che ci assomiglia, che sembra davvero la nostra copia, che quasi è calato nella nostra stessa condizione.

Che intreccio, tra vita e teatro. Tra elaborazioni e ricostruzioni. Tra momenti uguali che percepiamo diversi e tra differenze che scompaiono fuse nella stessa gioia o nella stessa commozione. Troppo facile e troppo difficile. Tutto e niente. Nel bisogno di poter ricoprire almeno il proprio ruolo o nella speranza di uscirne. 

martedì 22 aprile 2014

La minigonna di Mary Quant

L’ha inventata lei, la minigonna. Lei è Mary Quant, quella che per le giovani degli anni ’60 ha pensato a un look che mescolasse tutto: femminilità, audacia, charme, allegria. Già. Mary Quant non ha accorciato solo la stoffa di abiti e gonne per liberare le gambe, ha dato un tocco a tutto il guardaroba perché fosse serenamente ispirato a una sensualità giocosa e frizzante ma garbata.
Dai tagli di capelli corti e sbarazzini partivano vestitini pratici e semplici  dalle scollature castigate, un pezzo di gamba infilata in collant coprenti e colorati e una scarpa comoda a tacco grosso impreziosita magari da un laccetto alla caviglia.
Insomma la minigonna di Mary Quant era emancipazione elegante e coraggio dolce. Una grande donna, probabilmente, Mary Quant, inglese, classe 1934. E la moda sicuramente conserva il suo nome tra i creativi rivoluzionari. Benché il collega francese André Courrèges ne rivendicò la paternità per le donne del mondo la minigonna resta di Mary Quant.
Ecco, non ho mai pensato che un capo di abbigliamento potesse essere una vera e propria opera d’arte o il simbolo per eccellenza di un’epoca però non riuscirei neanche a sottovalutarlo troppo. Le espressioni del costume raccolgono o imprimono bisogni e desideri. E nulla più dei bisogni e dei desideri eccita e plasma la cultura.
D’altra parte osservare come Mary Quant ha interpretato la donna regala il piacere di una ‘stravaganza’ intelligente…
Che poi si possa discutere sull’eccessiva importanza attribuita all’immagine, sul sacrificio dello stile personale per indossare quello che propone il mercato, sulla mortificazione della bellezza interiore per lasciare spazio a quella esteriore è altra storia. La pagina scritta da Mary Quant merita comunque di essere ricordata. Lei, in effetti, ha trasmesso proprio il senso delle scelte: sta alla nostra testa e al nostro specchio intendere bene il messaggio. E, magari, imparare a mescolare armoniosamente tutti gli ingredienti che ci fanno donne. 

sabato 19 aprile 2014

Paesi con le ali

Ci sono paesi che hanno le ali. Volano, liberi, nei cieli del mondo. Appartengono all’immaginario di tutti perché da tutti sono amati.
Non è questione di bellezza. E’ una vocazione culturale. Sta tutta nell’umana apertura, in quel dono prezioso della vista senza confini. Non raccontano quanto sono ospitali, lo sono e basta. Non celebrano le loro virtù, semplicemente le hanno. Non si rannicchiano sulla loro terra a difendersi e difenderla, la guardano e la offrono con il sorriso sulla bocca. Non si lagnano di quello che a loro manca, ne colmano se mai le carenze con il calore delle idee e il colore dell’entusiasmo. Non provano mai invidia per l’erba del vicino, al più ne seminano altrettanta per poterne godere e perché il vicino in visita si senta a casa. Non hanno paura di ciò che non conoscono, dei cambiamenti, delle novità che arrivano da lontano, sono anzi curiosi, appassionati, grati a ogni opportunità.
Ecco, amano davvero la vita e il viaggio. Non hanno altra geografia che quella dei sentimenti, dell’arte, del benessere. A loro non importa farsi largo, competere, rivendicare. Non hanno bisogno di un riscatto. Hanno le ali perché hanno autentico cuore. Non quello autoproclamato, quello provato nei fatti, nella quotidianità, nel respiro dei pensieri. I loro abitanti non sono quelli registrati all’anagrafe, stampati nell’albero genealogico di generazioni inchiodate amaramente alla zolla, sono gli uomini e le donne di ogni dove che hanno valori e talenti da esplorare, ammirare, mescolare.

Già, mescolare. I paesi che hanno le ali non sono superbamente orgogliosi del loro groviglio di strade, schiavi di qualche soffocante consuetudine, ciechi e sordi ai richiami di qualsiasi meraviglia che non porti il loro stemma. Desiderano fondersi in abbracci. Sanno ascoltare, crescere, ballare. Se intravedono un pregiudizio, se qualcosa si svela intellettualmente misera, se annusano uno sciocco moralismo sciolgono subito le briglie e saltano. Non vogliono morire in un recinto. Loro hanno le ali e il cielo non ha recinti. 

giovedì 17 aprile 2014

La borsa parlante

Che le borsette la dicano lunga sulle donne è storia nota. Piccole, grandi, bizzarre o professionali ma tutte zeppe di dettagli rivelatori.
Altro che accessori, sono enciclopedie. Parlano già al primo sguardo perché il fatto che siano pochette, bauletti, secchielli, mega tracolle, al di là delle circostanze d’uso, svela un gusto. Il colore, i materiali, il numero di scomparti, la lunghezza dei manici sono chiari indizi di uno stile. Se poi abbiamo accesso all’interno tocchiamo quasi per intero una personalità. La donna sicura e pratica avrà un rigoroso ordine di cose essenziali, una piccola pochette per il trucco e gli elementi utili per le evenienze più comuni. La sentimentale avrà più o meno un particolare per ogni ricordo, persona, piacere della sua vita. L’ipocondriaca avrà la succursale di una farmacia. La donna insicura porterà tutto l’armamentario per ogni tendenza, emergenza, luogo di circolazione, durata dell’utilizzo.
Già. Bisogna considerare gli orari di lavoro, i giorni di festa, le serate con gli amici. Magari una borsa adatta per ogni occasione o una borsa per ogni occasione. E, appunto, l’indole. Che sei hai bisogno della copertina di Linus non osi la micro borsa neanche per andare in discoteca. E se invece sei molto free o molto spartana ti basta qualcosa più di un borsellino per infilare cellulare, chiavi e via.
Sempre se non scomodiamo i periodi del ciclo mestruale, l’influenza, i bimbi al seguito e altre giustificazioni per chiedere capienza alla nostra borsa. Ecco, se dobbiamo ricoverare fazzoletti e altre utilità, se non rinunciamo a penna e agenda, se dobbiamo avere una sciarpa a portata di mano o facciamo da scarica tasche per il compagno la borsa si dimensiona di conseguenza.
Però, se tutto questo fa parte dell’esperienza di tutte, la borsa che non soddisfa mai in pieno i desideri è fortunatamente uno spazio riservato a un numero più ristretto di donne. Donne che alla borsa chiedono troppo. Donne che non possono spendere troppo per la borsa dei desideri. Donne che avrebbero dovuto disegnare borse per far felici l’universo femminile.
Ecco, mi metto nella fascia marginale. Quella delle incontentabili che, per convincersi ad accontentarsi, nella vita ha accumulato un certo numero di borse insoddisfacenti.
Non che sia un grosso problema, per carità. Al più è buon esercizio di autoironia. Che francamente qualche volta mi tirerei il collo per questa sciocca guerra di borse. Se tornassi indietro, comunque, abbraccerei la pelle e ne farei un grande mestiere.

Potrei farlo anche ora? No, adesso devo portare a spasso tutte quelle che disgraziatamente ho comprato.