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lunedì 30 giugno 2014

La canzone di Mario

Questa di Mario è la storia vera che scivolò nel fiume a privamera.
E ci scivolò davvero. Tanto da inzupparlo. Che non fu dramma perché il tepore del sole in qualche ora fece la sua parte e lo restituì asciutto alle sue pedalate di ritorno ma che qualche spavento lo procurò. Mentre i pescatori sulla riva tenevano d’occhio i segnali dei galleggianti quello splash inaspettato arrivò come un gesto troppo sconsiderato o troppo audace. Troppo.
Chi poteva immaginare fosse solo una tragicomica combinazione di circostanze? Neanche Mario. Che curiosamente rimase pure in sella come se volesse cimentarsi in una prova di acqua-bike.
E poi le risate. Quelle di sollievo. Quelle del pensiero che si riavvolge e rivede tutti gli spezzoni di una sequenza che farebbe invidia al più provetto degli stuntmen. Quelle del chisseneimporta della maglietta stinta addosso, delle scarpe più o meno da buttare, dei capelli che fanno a meno del gel. Quelle di un’avventura da raccontare con tanto di applausi di sottofondo.

Perché la storia che scivolò nel fiume a primavera questa volta non è volata in cielo e ancora vive.    

sabato 28 giugno 2014

Passepartout

Apre porte e portoni. Consente l’accesso a quello che di bello e di brutto c’è al di là dell’uscio. E’ un codice che hai in dotazione per natura o impari a conoscere lungo le primavere della vita. Si chiama passepartout.
Più che magia nelle mani è fiuto dell’anima. Talvolta inquietante. Un pensiero da scacciare, una sensazione da scrollarsi di dosso. Altre incantevole. Un piacere che si fa brivido di attesa.

Già. Quando i sensori sono così brillanti da cogliere tutti i segnali del mondo provi esattamente quello che sarà. Intuisci chi c’è oltre qualsiasi serratura. Non serve varcare davvero la soglia, tutto è lì, nel passepartout. 

martedì 24 giugno 2014

Il ritratto: Adriano Stefanelli, made in Italy

Adriano Stefanelli è l’eccellenza artigiana. Quella che resiste e calza i ‘grandi’ del mondo.
Dal 1956 nella bottega di Novara Stefanelli fa le scarpe ai potenti. Le realizza, bisogna dire, altrimenti suona come una beffa. Per i piedi di Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, di Lech Walesa, Gorge Bush, Silvio Berlusconi o Luca Cordero di Montezemolo Adriano Stefanelli ha pensato a modelli che coniugassero eleganza, originalità e comodità.
Io che a Novara sono nata e vivo non sono mai riuscita, pur scrivendone, a entrare in amicizia con l’Adriano Stefanelli, asciutto e schivo, che lavora e vende lungo uno dei corsi del centro storico con pacata fierezza d’altri tempi. Non che immaginassi un signore da copertina, intendiamoci, ma dietro l’ambizione di servire i ‘passi importanti’ poteva celarsi un carattere più desideroso di visibilità, ecco. Invece presumo piaccia di più a Stefanelli la fama delle sue creazioni, il trionfo del made in Italy, la soddisfazione di vedere una suola vip consumarsi per grande uso.
E questo mi piace. Forse addirittura mi conforta. Perché qualcosa resiste. Perché ci sono ancora mani che fanno bene. Perché ci sono uomini che amano il loro mestiere. Oggi più che mai ne avremmo bisogno, del made in Italy. Di un ritrovato orgoglio per l’artigianato. Della capacità e del gusto. Di qualità.
Certo la paura e il dubbio rimangono. Che non ci siano eredi. Eredi di un mondo e di un lavoro onorevoli. Eredi di una cultura. Eredi di una forza.
Non mi faccio alcun problema ad urlarlo. Purtroppo non vedo in giro la voglia di conservarlo o raccoglierlo, questo patrimonio. Non vedo tutti questi giovani desiderosi di far andare le mani, di emergere con la fatica e il genio, di credere nell’eccellenza.
Non è stato consegnato loro il modello Stefanelli ma ben altro falso mito da inseguire e idolatrare. D’altra parte, bisogna pur dirlo, a loro non garba l’idea di rivedere principi e pensieri, affatto.
Oh non perdete tempo a rammentarmi che non sono tutti così, i ragazzi. Che generalizzare è sbagliato e bla bla. Le eccezioni le conosco eccome. E servono, purtroppo anche per loro, a confermare la regola.

Giusto per tornare al ritratto e concluderlo non ho lodi da indirizzare alle scarpe fatte da Stefanelli che vedo in vetrina, ma ne ho abbastanza da dedicare a lui. Per l’impegno e l’audacia.

domenica 22 giugno 2014

Più nuda

Più nuda. Ancora un po’. Via un pezzo, poi un altro.
Troppo ingombro. Abiti sciocchi. Tempo perso.
Così. Come si toglie lo smalto e si limano le unghie. Fino all’essenziale.
Così. Come si riducono le parole e si accorciano le frasi. Si semplificano i concetti.
Più nuda. Ancora un po’. Tagliare, alleggerire.
Che vengono in mente il raschietto e la carta vetrata, la paglietta e lo sgrassatore. Senza guanti, con i capelli arruffati e il sudore buono. 
Togliere, pulire. E riportare tutto alla sua naturalezza. Il più vicino possibile alla verità. A quella brusca ma serena identità, alla facilità di alzarsi al mattino e essere.
Il corso degli eventi non cambia. E’ meraviglioso, allora, non affaticarsi a fingere di governarlo. Non imbellettarsi per piacere al destino che già ti ha scelto o non ti vorrà neanche con tutto il trucco del mondo. Non torturarsi di percorsi e vivere quello che abbiamo sotto i piedi.
Più nuda. Di più. Con quello che sei, con quello che puoi, con quello che hai, con quello che sai. Che tutto il resto è solo un fardello in eccesso, basta quello che hai sulle spalle e nel cuore.
Più nuda. Non migliore o peggiore, reale. E di realtà si può morire ma anche gioire, forse. 
La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri. A se stessi. Alla vita.

martedì 17 giugno 2014

Quanta debolezza nella violenza

La violenza è spesso la malattia della debolezza. Dietro i muscoli e la mascella serrata in un atroce ghigno si nascondono incapacità, fragilità, insicurezze.
Non si può giustificare perché purtroppo genera sofferenza, fa danni, distrugge esistenze. Ma si deve capire. Bisogna sapere e riflettere su quel terribile disagio che fa esprimere con le mani o le armi.
E’ l’unico modo per non finire tutti potenzialmente vittime della malattia o di ciò che essa causa agli altri. Non mi esprimo qui con le competenze di criminologia, lo faccio da donna, da persona di questo tempo e di questo mondo. Lo faccio con l’istinto. Quello che mi dice che si lacera facilmente un tessuto che non è di buona qualità, che è liso o maltrattato. Quello che mi dice che la corda tirata si può spezzare in un lampo. Quello che mi dice che il disastro della comunicazione e delle relazioni non può che produrre tragedie.
Chi usa la forza per imporsi o per spezzare la vita altrui non può mai ricevere la nostra indulgenza e la nostra approvazione. Ma non può bastare la condanna. Bisogna evitare quanto più è possibile che accada ancora, di nuovo, e poi un’altra volta.
Occorre una ‘cultura della non violenza’, innanzi tutto. Che vuol dire molto di più e molto altro di una pena per chi uccide o tenta di farlo. Serve una di quelle parole grosse, molto grosse. Qualcosa che assomigli alla serenità, ecco. Perché, al di là delle condizioni individuali, quello che è saltato è il senso collettivo dei valori, delle misure, delle prospettive. Soprattutto tra uomini e donne. I punti di conflitto hanno superato quelli di armonia. Mancano equilibri di riferimento. Ci sono troppe cause di rabbia e frustrazione.
Inutile negare il baratro tra le due facce della mela e poi svegliarsi con il dito puntato quando il bubbone esplode. Inutile fingere di non accorgersi che ci siamo allontanati. Inutile arroccarsi sui diritti e sulle libertà quando questo non cela che un fallimento che impoverisce tutto e tutti.
Se c’è una cosa spaventosamente diffusa quella è l’infelicità. Quella della solitudine. Quella della gabbia. Quella della frattura.
Teoricamente saremmo nati per completarci, in amicizia, amore, condivisione. Ma la verità è che ormai facciamo una fatica immane a trovare corrispondenze. Abbiamo paure, pregiudizi, arroganze devastanti. Aspettiamo o pretendiamo di essere collocati su un piedistallo ma non vi collochiamo alcuno. Manchiamo di rispetto ma lo esigiamo. Abbiamo ‘maturato’ un egoismo atroce che sventoliamo come bandiera di indipendenza. Siamo piccoli e stupidi. Diamo sempre, al massimo, ciò che riceviamo. Mai più slanci e naturalezze, solo tattiche di difesa o di opportunismo.

Ci sentiamo moderni. Invece siamo miserabilmente in frantumi.

lunedì 16 giugno 2014

La storia di Hackiko

Una storia che tutti conoscono o dovrebbero conoscere. Una storia diventata il film delle emozioni e delle lacrime. Una storia di ‘grande spiritualità’, secondo l’attore Richard Gere che vi ha letto e magnificamente interpretato l’infinita connessione tra esseri viventi.
La storia di Hackiko non commuove solo perché è la più splendida celebrazione del rapporto tra un cane e un uomo. Sbalordisce perché ci consegna una dedizione e un affetto senza scadenza.
Penso spesso alla storia di Hackiko. Alle nostre ostinate precarietà. Alle nostre leggerezze colpevoli. Alle nostre povertà, o viltà, di spirito. Perché la lezione di Hackiko contiene le domande e le risposte. Soprattutto al nostro ‘vuoto’. A quello che colmiamo con momenti e cose, acchiappati alla rinfusa. A quello che stordiamo per non sentire. A quello che neghiamo per esorcizzare. A quello che malediciamo per fastidio e rabbia.
Davanti al ‘vuoto’ ogni reazione è umana. Ma, almeno talvolta, sarebbe altrettanto umana l’accettazione. La storia di Hackiko ci presenta proprio la pienezza del vuoto. Ovvero quello dal quale il più delle volte ci allontaniamo…
Hackiko attende il padrone morto per dieci lunghi anni. Non si ribella al vuoto e neanche si rassegna. Semplicemente lo vive. Lì. Dove sono stati insieme. Lì. Dove si sono lasciati. Lì. Dove, chissà, potrebbe continuare ad avvertirne il respiro.
Hackiko non vuole rinunciare alla pienezza che ha conosciuto. E solo nel vuoto sa di continuare a tenerla nel raggio del suo fiuto. Forse è proprio questo l’amore. Forse è proprio questo il senso della vita. Esserci fino in fondo. Anche quando fa male. Perché quello che siamo è anche in quello strazio.

E mi chiedo spesso se possa riuscire anche a me, anche agli uomini, avvertire più la pienezza che il vuoto. Chi non possiamo trattenere continua ad esistere nel nostro tormento o nelle gioie della memoria?    

mercoledì 11 giugno 2014

Via del Campo

Dai diamanti non nasce niente
Dal letame nascono i fiori
Una poesia indiscutibile come mai altra. Che nella musica ha trovato un fiato in più, quello che arriva veloce, alla pelle e nelle ossa.
Parole che il mondo conserva anche se, ottuso o strafottente, fatica a pronunciarle nei gesti della vita, nel senso delle giornate, nelle pose dell’animo.
Parole che smascherano, burlano, accoltellano. Con il sorriso amaro della rabbia o quello dolce della consapevolezza. Perché la verità non la inventi. E’ lì e basta. Se fai spallucce e pensi di potertene prendere gioco prima o poi bussa alla tua spalla, implacabile.
La realtà fa solo finta di inchinarsi agli ori e al belletto. Sono gli uomini, se mai, a esserne sedotti, a non saper più vedere la bellezza, l’amore, la vita.
Basta prenderla per la mano
La puttana con gli occhi grandi color di foglia
Così, semplicemente.
Grazie, Fabrizio De André.
(foto di Conci Rinaudo)

martedì 10 giugno 2014

Roberto Vecchioni: Irene

Questo niente nella mano sono finalmente io
Irene. Una canzone che arriva addosso come un ciclone e porta pure il nostro nome come titolo ammetterete che è quella che si dice una combinazione molto significativa. Quasi inquietante. Che insomma fa un po’ sussultare l’idea che un nome replichi in qualche modo la medesima sorte.
Ogni tanto ci torno. Non solo ad ascoltarla e a pensarci. Anche a scriverne. Forse è una sveglia che ogni tanto suona. O è il lampo di un attimo, quello che vorrei afferrare. Però, caro Vecchioni, pur non avendo coltivato ninfee in un tempo da borghesi e avendo capito gli uomini e le idee, me ne sto ancora con i gufi sulla spalla. Perché ci sono cose dalle quali puoi anche scappare ma ti inseguono e ti raggiungono anche in capo al mondo.
Irene. Quella che deve scegliere chi è. Sempre ammesso possa davvero, scegliere. Può darsi lo sappia, chi è. Può darsi che in cuor suo faccia esattamente il volo dei desideri, quello della sua natura, quello più bello anche. Ma nella realtà è lì, a farsi mangiare gli occhi. O almeno a fingere di lasciarglielo fare.
Difficile capirlo, ancor più accettarlo. Già, talvolta è facile credere che tutti possano decidere la loro vita. Decidere la loro vita, che roba grande…Tragicomico, un pensiero così.
Irene. Che comunque il suo percorso lo fa, un nome, anche fuori dalla rotta del destino. Il punto, caro Roberto Vecchioni, è che non è detto che gli altri se ne accorgano. Ecco tutto. Irene. Quella che corre via ma nessuno lo sa.

Nuda e leggera come solo in silenzio, nascosti, al buio si può essere.
Questo niente nella mano sono finalmente io.

Vedi? In fondo lo intuivi. Niente, per partire da zero. Ma niente è anche per restarci. Con una forma molto alternativa di serenità.   

sabato 7 giugno 2014

Questo è il mio paese

C’è un luogo cui appartieni nel momento stesso in cui ci metti piede. E gli appartieni senza essere in gabbia. Senza un indirizzo di residenza. Senza l’accento delle parole. Senza condividere i suoi costumi.
E’ un paese con una sola ossessione: quella di non essere schiavo della smania di piacere. Un paese che, prima di mostrare le sue virtù, respira grato quelle dell’ospite.
Un paese dove non ti invitano a grandi abbuffate per illuderti del loro affetto. Un paese che non ti spia dalle finestre, per intuire dai tuoi passi, forestiero, chi sei, da dove arrivi e perché. Un paese che non conosce falsi amori, non finge miserie, non cova invidie. Un paese dove conosci finalmente l’accoglienza. Senza tradizioni da osservare, gratitudini da dimostrare, apparenze da rispettare.
Un paese che non ha superbie sciocche, detti tristi e sciatterie vecchie. Ha sorrisi, mani e teste. Ha cuori che abbracciano solo se ne hanno voglia.
Un paese che non sopravvive solo nei doverosi ricordi, quelli simulati da chi se ne è andato, perché è un paese dal quale nessuno se ne và. Un paese dove chiunque è, finalmente, a casa.
E’ un vecchio borgo di case di pietra che si confondono con la montagna, affacciato su un grande specchio d’acqua dalle rive fiorite. Un villaggio che ha l’odore del mare. Una terra di verde pianura. Uno scrigno di sole, scorci e frescure. Una contrada che è quasi un distretto di New York.

Uno di quei posti minuscoli e immensi che non si devono celebrare. Che le
celebrazioni servono solo a quelli morti, con la caparbia pretesa di resuscitare a forza di commemorazioni. Un paese che nessuno ha mai raccontato, dipinto, cantato, portato in scena. Perché tutti sono così presi a vivere e a viverlo da non averne tempo, bisogno, desiderio.

venerdì 6 giugno 2014

Il ritratto: Antonella Mollia, l’intelligente bellezza

Antonella Mollia c’è. E non è uno slogan promozionale ma la sintesi perfetta di una personalità più unica che rara. C’è. Con la testa e il cuore. Nel senso del dovere, nella generosità, nell’allegria. Pure in quel misterioso territorio del fascino. Sarà tenacia, sarà passione, sarà verve. O una formula matematica che mescola tutto per un risultato ineccepibile.
Eccellente, Antonella Mollia. Ovunque e in ogni cosa. Così bella e impeccabile. Nel successo e tra gli amici. Alla sua delicata scrivania o sulle piste da sci. A zonzo per lo shopping, spalmata sul lettino di un lido o in riunione.
Perché Antonella è capace, meticolosa, leale, instancabile, grintosa. Piena di risorse, energie e sorrisi. Pronta, sempre pronta. Soprattutto a darsi. A capofitto sui libri, nei meandri delle norme, nell’alchimia delle relazioni, nelle sfide della vita. Una che si rimbocca le maniche, Antonella Mollia. Una che la carriera la beve come un cappuccino a colazione: con piacere, dedizione, garbo e determinazione.
Audace e brillante ma costantemente connessa. Che Antonella Mollia l’onda la cavalca con perizia. Perché lei è attenta a tutto. Non le sfugge neppure una parola o uno sguardo. Lei cerca il risultato migliore. Lei non vuole cose a metà. E si muove a ritmo di musica, senza errori o sbavature.
L’intelligente bellezza è proprio in quella magia che la illumina e di cui chiunque gode incontrandola. Confezionata a meraviglia in una presenza invidiabile e in un’eleganza speciale ma decisamente manovrata con sublime charme da un cervello fuori dall’ordinario. Che donna.
Splendidamente ‘utile’. In efficienza e leggerezza sapientemente dosate. In carisma e dolcezza più che mai alleati. Rigorosa, Antonella Mollia, in primis con se stessa. Eppure così genialmente femminile. Una che sotto lo schermo del belletto e della frivolezza custodisce con forza i valori più grandi e preziosi del mondo.
Una che ama, Antonella Mollia. Con una profondità commovente. Perchè c’è. Con tutti i muscoli, le lacrime, i baci, i pensieri. Una che ti abbraccia davvero, Antonella Mollia. O che ti ripudia con sdegno. Intera. Totale. Perché così si deve vivere la vita. Intensamente e veramente.
Altro che dipendenti pubblici. Un segretario comunale come Antonella Mollia può dimostrare cosa sono la dignità professionale, lo spirito di servizio, la competenza. Altro che amiche per la pelle che neanche sanno dove stanno di casa il calore, la complicità, la sincerità. Una donna come Antonella Mollia la ritrovi fin che morte non interrompa il collegamento.
E mi piace quella sua ‘apparenza’, seguo divertita tutte le sue mise, ammiro il suo accanimento per la forma fisica. Perché per lei nulla è per caso. Nulla è davvero fatuo. Rispetta la vita, Antonella Mollia. Anche nelle forme, anche nella cura con cui ogni giorno si presenta allo specchio. Perché l’ha cercato e conquistato uno spicchio di cielo, un posto al sole, un po’ di serenità.
Ecco, lo so, può sembrare maniacale il vezzo estetico. Ma sono sicura di non sbagliare: non lo è. Quello di Antonella Mollia è bisogno o desiderio di un’armonia senza falle e cedimenti. Tutto giusto, tutto gradevole, tutto al top.
Tanto una autentica, seria, affidabile e coerente può permettersi pure il lusso di giocare. 
Sono felice di conoscerla. E anche di entusiasmarla, penso, con questo omaggio. Lei, Antonella Mollia, l'intelligente bellezza, merita questo ritratto e molto di più. Tanta, tantissima gioia, almeno.

martedì 3 giugno 2014

Dagli sbagli e dai tatuaggi si impara

Dagli sbagli si impara. E non lo dice solo Fabri Fibra rappando. E’ la più vecchia saggezza popolare della quale si abbia notizia, forse. Anzi, più che notizia, esperienza.
Imparare poi non significa mettersi al riparo: a memoria d’uomo si possono citare milioni di errori ripetuti, di lacune mai colmate, di lezioni mai del tutto capaci di tenerci lontano dai guai, dalle cadute, dalla fatale sofferenza. Talvolta infatti teniamo un comportamento pur avendo consapevolezza che in passato ci ha recato danno o non ha prodotto brillanti risultati. Questione di carattere, di circostanze, di tenerezza. Ostinazione, fragilità o istinto traditore.
Ho un tatuaggio che non voglio più
Me lo tengo così mi ricordo di quanto sono stato
Affrettato…
Così canta Fabri Fibra. D’altra parte togliersi un tatuaggio non è proprio come schioccare le dita.
Un tatuaggio può essere figlio della fretta, insomma di un desiderio che si vuole esaudire al volo, dice Fabri Fibra. Ma probabilmente, azzardo, anche di un’ispirazione, di una ragione, di un piacere. Qualcosa di forte. Lo penso perché non mi piacciono i tatuaggi e intorno a me scorgo un numero davvero notevole di persone tatuate. Moda? Francamente un marchio a fuoco sulla pelle non è proprio lo sfizio di un vestito, immagino ci sia qualche spinta emotiva profonda e non propriamente una scelta estetica.
Ci sono ragazzi e ragazze che spalmano sul corpo una collezione di tatuaggi. Roba che, appunto, non si cambia come il guardaroba. E che dice, o dovrebbe dirla, lunga. Perché contiene informazioni, lancia messaggi. Perché hai sopportato dolore per esibirlo. Perché hai scelto magari di fartene un altro, nonostante non fosse una passeggiata di salute.
Curioso, per me, che tanti di quei ragazzi e di quelle ragazze alla smania di tatuaggi uniscano smanie di tv, passerelle, cinema. Perché proprio in casa di casting e provini si prediligono aspiranti non tatuati e possibilmente il più ‘naturali’ possibile…Perché talvolta, davvero, bisognerebbe capire quale priorità diamo a quei desideri che vorremmo esaudire. Se il tatuaggio è più importante di una possibilità di lavoro e passione, ad esempio.

Che non è una predica, sia chiaro. E’ una riflessione. E, se mai, una pulce nell’orecchio a chi ha nel cassetto il sogno di un film o di un’apparizione sul piccolo schermo…