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venerdì 23 ottobre 2015

Antonio Mesisca: Nero Dostoevskij

Nero Dostoevskij è una pistola puntata alla tempia che invece di fotterti di paura ti fa contorcere dalle risate. Mica perché è una barzelletta. Macché. E’ una di quelle storie che, felicemente, non collochi. Alla faccia del genere letterario lui, Antonio Mesisca, fa surf in acque torbide e cristalline insieme. Così, per lucida fantasia o per squinternato realismo.
Prende alla pancia, Nero Dostoevskij. Innanzi tutto per il ritmo. E se questo pare una sorta di complimento minore, vi sbagliate di grosso. Insomma qui non è la scrittura, pur fluida e incalzante, a dettare il tempo. E’ la trama –noir, rock, esilarante, conturbante- a serrare il lettore in un abbraccio forsennato e incantevole.
Nella spirale della ricchezza e del gioco d’azzardo, Oscar Peretti, sfigato  e assassino, è uno di noi e ci porta a spasso nella variegata bestialità di un microcosmo di sentimenti slabbrati, malfattori contorti, macchiette di un verismo volutamente stiracchiato, avventure destre e sinistre.
Sullo sfondo delle risaie che, beate loro, stanno benone alla faccia di chi si illude che sognino il mare, il bandolo della matassa c’è ma non si trova, non c’è ma si trova.
A cavallo tra le questioni irrisolte, del nord, del sud, della sorte che li allea contro chi non è del nord e non è del sud, Antonio Mesisca mette in sella un frullatore a tutta velocità che mescola una quantità di personaggi, situazioni, stati d’animo talmente grotteschi da non esserlo affatto.
Gioca alla grande, con il paradosso del caso che spesso assomiglia, molto, alla realtà. Almeno quella dei pensieri. Mette insieme e muove i fili di una commedia della rabbia, del dolore, dell’assurdità, della banalità che ci attorciglia, ci strizza e poi ci stende al sole ad asciugare. Smaschera anche un po’, sicuramente. Magari con quel cinismo esasperato o quella frecciata buttata lì, a parole sottili. Già, ci ha messo dentro le osservazioni di anni e anni, Mesisca. Ma anche quella burla sfegatata che fa luce su ogni cosa.
Infatti tra un’avida incallita gioielliera, un manipolo di più o meno loschi figuri, le bizze dei signorotti, l’Oscar Peretti, un simpatico puttaniere, un investigatore corroso dal ruolo e le più tenere o tenebrose comparse, Nero Dostoevskij fa trionfare una comicità dark, sporca, grassa e proprio per questo travolgente.
Antonio Mesisca è maestro, di ironia. Sa bene che tutto, proprio tutto, può essere svelato, graffiato, dissacrato, urlato, con la sferzante potenza dell’umorismo. E che in fondo l’esistenza è davvero una burla delle ferree logiche immaginarie.
L’uomo è di pasta geniale, buona, stravagante, perfida, miserabile. E bisogna farsene una ragione. No, non per rassegnarsi. Per vedere meglio. Sotto la crosta. E non la tiro lunga con il bene e il male che si annidano in chiunque e ovunque, preferisco leggere Nero Dostoevskij come un sublime diversivo all’arte della bellezza piatta. Uno sfogo, una provocazione, una scarica di adrenalina, un moto di irridente saggezza…Mi piace, irridente saggezza.
Perché lui, Antonio Mesisca, è un mix di dolcezza e arguzia. Chissà come gode, ora. E io ne sono felice, molto felice.
Chapeau, applausi a scena aperta.

Antonio Mesisca, Nero Dostoevskij, Catrame noir, Scrittura&Scritture.

martedì 13 ottobre 2015

Strappateli di vita, i jeans

Jeans strappati, ovunque. La moda impone e non c’è prezzo, bastano che sia rotti. Oggi ho contato, uno per uno, cento ragazzi/e dalle superiori all’università in circa duecento metri di strada che percorro ogni giorno: tutti con i jeans pesantemente sdruciti, aggiungerei anche le all star ai piedi in effetti se non fosse che mi colpiscono di più i pantaloni e il motivo c’è, eccome.
I jeans sono gloriosamente nati come indumenti da lavoro, hanno sfidato il tempo, raggiunto ogni luogo del mondo, vestito tutti.
La loro praticità e resistenza li ha consacrati a cult indiscusso, trasversale alle epoche e alle età. E sono benvenuti in tutti i modelli, sia chiaro.
Ma la loro forza sta proprio nel carattere. E’ l’unico capo che viaggia come un prezioso oggetto in vera pelle o cuoio, più invecchia più ha stile. Il fatto è che deve invecchiare con noi, non all’origine. Dobbiamo avere la voglia e il coraggio di strapparli di vita, i jeans, non di pagare il ‘genio’ che ce li consegna già belli pronti per il sacchetto dei rifiuti. Possiamo tenere duro, cucirli e ricucirli, coprire un buco con una bella toppa, lasciare che si sbrindellino come capita. Infilarsi in quelli nuovi di zecca aggrediti dalle forbici li uccide almeno quanto uccide noi.
Mettiamo proprio a tacere tutto? Possibile che non ci sia più alcun desiderio di essere diversi da un numero? Uno dei cento, uguale agli altri novantanove, si distinguerà per il nome più di moda al massimo. Già, che c’è pure lo strappo griffato accidenti.
Io non so perché. Perché siamo arrivati fin qui. Perché non vogliamo che essere un minuscolo frammento della massa.

venerdì 2 ottobre 2015

Il lavoro nobilita

Il lavoro nobilita, non si discute.
Non è che nutrissi dubbi, in verità, ma le conferme dirompenti mi hanno persuasa a mettere un punto scritto. In tutto il bailamme della disoccupazione, della disperata mobilità, dei giovani con l’incognita del primo impiego, delle attività a rischio chiusura che fanno vacillare le sorti degli occupati mi sono arrivati forti e chiari puri i segnali del decadimento umano, morale, culturale, di quella deriva smidollata e vergognosa che davvero fa inorridire.
Inutile negare. Il menefreghismo, il fancazzismo dilagante, la mancanza di professionalità, il pressappochismo, l’indolenza sono talmente diffusi, irritanti, miserabili, dannosi che verrebbe da proporre uno scambio immediato: sostituire prontamente gli inetti, gli ingrati, i lamentosi, i fannulloni, gli improvvisati con i volenterosi, abili, bisognosi, zelanti che sono a casa o in lista d’attesa.
Ma è qui che scatta il dramma. E’ la soglia del posto di lavoro che cambia i connotati. Chi la varca sembra in diritto di avanzare ogni sorta di comoda pretesa senza nulla avere da dimostrare, fare, muovere.
Nel lassismo delle polemiche, delle ricette, delle ipotesi il caos ha preso il sopravvento e troppi si sono accomodati sulla loro stupidità, hanno abdicato alla dignità, all’orgoglio, all’entusiasmo, al senso del dovere, al rispetto.
Si sbandiera quella parola lì, dignità, solo in proprio difesa, per erigere barricate, per non mettere il naso fuori dal mansionario, per abbaiare contro chiunque attenti alla ‘certezza’ della busta paga a fine mese. La si dimentica e la si calpesta invece, tutte le volte che significherebbe comportarsi correttamente e seriamente, portare avanti a testa alta le proprie conoscenze e abilità, avere a cuore il buon andamento di qualcosa.
Ma in quale grottesca trappola ci siamo infilati?
Forse vagheggia in noi qualche bislacca idea di furbizia o di pigrizia, non so.
A me pare un’idiozia pericolosa, orribile, disgustosa.
Il lavoro non è tutto. Io odio la banalità devastante, pretestuosa, fuorviante, di questa espressione. Certo che non è tutto. E allora?
Il lavoro è una nostra dimensione. All’opera manifestiamo di che pasta siamo fatti. Cosa c’è da aggiungere, da togliere, da spiegare?
Non è questione di fare gli idraulici, gli ingegneri, gli impiegati dell’asl. Quale che siano i nostri ruoli, compiti, ambiti, abbiamo la decenza, la voglia, la forza, la coscienza per adempiere pienamente ciò a cui siamo chiamati?
Chissà se, come, quanto dialogano occupati e inoccupati e cosa davvero si dicono. Chissà cosa circola in questa società che emana cattivo odore e scarso onore. Chissà dove finiremo, tutti quanti, se ciascun onesto e preparato non comincerà a far notare, e a pretendere che si notino, le differenze.

Il lavoro nobilita…gli spiriti nobili.