Scosta
appena le tende, guarda fuori.
Fissa
il labiale, le vicine sussurrano qualcosa, non è la solita conversazione del
mattino a voce cristallina. Forse parlano proprio di lei. Della sua strana
malattia. Di quella penombra inquieta.
Era
arrivata titubante all’incontro con quel raggio di luce, quasi una sfida con se
stessa per spiare almeno un po’ di quotidianità. Ed è già pentita, ora che
quelle parole segrete le arrivano come una pugnalata al cuore pensa che il
silenzio e la solitudine la proteggono da quello strazio, torna a letto e si
abbandona ai pensieri.
Perché?
Non
si chiede perché è capitato a lei, perché le è capitato proprio quel destino.
Quello che la tormenta è perché tutto muti intorno a lei. Perché la gente abbia
così paura di quello che è scomodo, di quello che muta le abitudini, di quello
che tiene sulle spine per tanto tempo. La gente vuole un dolore da scacciare
con una pastiglia, una patologia grave che consegna in un lampo alla morte, una
sofferenza con la quale si convive con una terapia da cavallo fitta e precisa.
Vive invece un disagio insopportabile quando un malanno altera l’ordine della
routine, sfugge alla prassi che conoscono, leva fiato alla tranquillità.
Lei
preparava il caffè per le vicine, ogni giorno.
Lei
andava a pranzo dalle vicine, ogni sabato.
Lei
andava al mercato con le vicine, ogni giovedì.
Lei
andava a messa con le vicine, ogni domenica.
Confidenze
e ricordi. Lei e le vicine si conoscevano da cinquant’anni.
Adesso
non volevano disturbarla, aspettavano che guarisse.
Perché
non condividevano la sua penombra? Perché non le facevano visita accarezzandole
la mano in silenzio?
Lei
non riusciva a giudicarle male per questo. Sapeva che non era cattiveria o
indifferenza ma il brutto imbarazzo di quella piccola cultura della “regolarità”.
Qualcosa che stritolava di ottusità il costume.
D’altra
parte aveva a malapena la forza di sopravvivere, le battaglie contro i
pregiudizi avrebbero richiesto un’energia che non aveva. Allora pianse,
amaramente. Per il rammarico di non aver mai lottato prima.
(dipinto di Domenico Cocchiara, La Lacrima)
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