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giovedì 31 ottobre 2013

Due vecchi sul muretto

Seduti sul muretto a secco, vecchi quanto basta per averlo visto ai tempi in cui non accennava neanche un piccolo cedimento. Una mano appoggiata al bastone, l'altra levata in aria per accompagnare le parole. Entrambi. Come se la posa fosse quella di un set cinematografico al ciak del regista. 
Solo i corpi sono diventati grandi diversamente, smilzo quello con la coppola scura, tarchiato quello con il cappello chiaro.
Sono gli stessi di ieri. Sono i due che ci saranno anche domani.

In un rito che non si consuma, si ripete. Fanno uso, probi, di quel muretto, di quel tempo, di quell’incontro.

mercoledì 30 ottobre 2013

L'anima del paese storto

Ci sono luoghi che non stanno dritti. Anzi, luoghi che non conoscono le geometrie comuni. Luoghi che la natura e la vita hanno disegnato a mano libera.
Quando tutto và storto, sul foglio bianco dove cerchiamo con la penna la riga immaginaria, le prospettive degli stati d’animo lottano con le disposizioni fisiche.
E’ una lettera d’affari o una missiva d’amore e i pensieri ci comandano al rigore o alla dolcezza. Ma incliniamo e forziamo in su e in giù in preda all’impegno o alla sfida, con le lettere che barcollano ubriache e gli svolazzi che imperversano, casuali e impudenti.
Lungo il percorso le frasi sussultano, curvano o prendono la salita. Le ritrovi incollate o distanti, con le balze come le vecchie gonne o calate in un paio di scarpe troppo piccole o troppo grandi. Assolvono la funzione a modo loro, si presentano come preferiscono. Non fanno inchini a chi scrive e a chi legge. Se volete la pagina con le linee tracciate, dicono, accomodatevi altrove.
Quando tutto và storto incontri luoghi che non stanno dritti. Luoghi dove la rivoluzione dei profili ti fa toccare una bellezza sconosciuta e surreale. La bellezza imperfetta del foglio bianco, con le parole impastate di poesia della pietra e prosa del sorriso.
La dimensione dell’anima nelle forme fuori traiettoria ha sfumature di resistenza e di audacia che danzano sul filo, in bilico come le lettere ubriache. Sulle facce che aprono l’uscio di case, nelle voci che scendono dal balcone, nelle schiene che cercano il sollievo di una discesa e nella palla che corre tra i calci dei bambini.

Non fanno bella figura nelle cartoline, i luoghi che non stanno dritti. Loro sanno mostrarsi solo in carne e ossa. Le emozioni non le spediscono per posta, le conservano tutte per regalarle a chi ha l’inclinazione giusta per arrivarci. 

mercoledì 23 ottobre 2013

Il sole, la luna, le stelle

“Eppure io so come rendere interessante la tua vita.
Ah si? E come?
Andando a cercare la parte di sogno che ti spetta di diritto.
E dov’è questa parte di sogno?
Un po’ ovunque nel mondo. Ma soprattutto dentro di te!”
(Il violino nero, Maxence Fermine)
Il problema, se mai, è l’interpretazione, dei sogni. E scusate se sembra una battuta che offusca il lirismo di un grande pensiero.
Qualche volta ci rassegniamo a dare ai nostri sogni una lettura che si adatti alla realtà dei nostri confini. Ed è lì che rischiamo di ucciderli.
“Nemo propheta in patria” (Gesù docet).
Non occorre solo serenamente accettarlo e volgersi altrove, ad abbracciare le menti e i cuori che allargano le braccia per accoglierci. Bisogna essere felici di quel salto perché ci consegna al cielo.
“Possa tu costruire la scala che conduce alle stelle e percorrerne ogni gradino” (Bob Dylan). Già, che meraviglia! E allora è facile intuire quanto lo splendore delle stelle sia incantevole nel buio: “Solo quando è buio riusciamo a vedere le stelle” (Martin Luther King).
Certo la luce poi qualche scherzo lo tira: “Non avessi mai visto il sole avrei sopportato
l’ombra ma la luce ha aggiunto al mio deserto una desolazione inaudita” (Emily Dickinson). Quando la conosci, ogni ombra è una lacerazione, è vero. D’altra parte dobbiamo capire che il privilegio di vedere la luce vale assai più del dolore che ci procura il buio intorno.
Indulgenza, ci vuole indulgenza. Con chi non ha luce, tra le mani o in sogno. Pure con chi, colpevolmente, la ignora. La vera condanna la pronunciano da soli e non sta dunque a noi infierire sulle loro tenebre. Ciò di cui dobbiamo invece andare lieti e fieri è la distanza del nostro coraggio e della nostra verità.
“Oh certo che può sembrare inutile/una stazione a chi non parte mai/ma i treni che davvero portan via/non han fiori sui sedili/ma da fuori non lo sai/devi entrarci per sapere dove vai…Corri via, scappa via, ma devi farlo da te/senza starlo a chiedere…basta che cerchi tu, solo tu, di scegliere chi sei”  (Irene, Roberto Vecchioni).
Tu ci sei entrato, io ero lì e ho capito subito che eri pronto per il viaggio. Un po’ ovunque nel mondo ma soprattutto dentro di te, a cercare la parte di sogno che ti spetta di diritto.
So che talvolta non basta: a chi ha “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me” (Kant) importerebbe assai far assaporare a tutti la stessa feconda beatitudine e avverte ogni porta chiusa come un pugnale nel cuore della vita. Sono orribili momenti che dobbiamo sopportare, non c’è scampo. Quello che conta è guardare l’orizzonte non un puntino fermo sotto i nostri piedi, non farsi confondere o indebolire, non cedere mai a chi vuole trattenerci nell’oscurità.
“Ci sono momenti nella vita in cui l’unica alternativa possibile è perdere il controllo” (Brida, P. Coelho). Meno male che l’hai perso, il controllo!
Continua a volare.

Dedicato a te e a tutti gli illuminati che prima o poi la storia narrerà come acrobati dell’aria e donatori di ali.

lunedì 21 ottobre 2013

Una piccola impresa meridionale: grazie, Rocco Papaleo

Una piccola impresa meridionale di e con Rocco Papaleo è un capolavoro
Lo è ben al di là della storia, delle ambientazioni, delle interpretazioni che già sono eccellenti. Lo è nel Faro e nel percorso. Lo è nello spirito. Lo è nel respiro infinito.
La trama non ve la racconto: è un film da vedere e sentire e poi rivedere e risentire e infine accogliere e amare.
Il prete “spretato”, la vecchia madre, la prostituta, i circensi muratori, le lesbiche, il cornuto, la bimba di genitori separati e tutto l’universo più o meno parallelo non sono solo uno spaccato umano e sociale della nostra realtà, sono un grandissimo trampolino di lancio per un cammino di luce e apertura. Per un autentico risveglio, direi.
Un risveglio che non può che accendersi con la sensibilità, la passione, l’autenticità degli istinti, degli aneliti e dei sentimenti più naturali.
Quella di Rocco Papaleo è una riflessione profonda. Tanto profonda che si può cogliere solo con la semplicità dei sensi liberi, fuori dalle logiche e dagli schemi con i quali si valuta “l’opera cinematografica”. E’ una strada, quella di Rocco Papaleo e di Una piccola impresa meridionale che, chi adora abbracciare qualche filosofia di pensiero, chiamerebbe scelta di vita. Io la trovo uno stato dell’animo. E la luce del faro è perfetta come guida, almeno per chi è pronto a imboccare la via illuminata.
La costruzione o la ricostruzione, in un’armonia che supera l’ordine architettonico.
“Non ci avrete!” grida giustamente il magnifico Jennifer, perché lui e gli altri non capitoleranno mai ai pregiudizi e alle convenzioni, alla miseria morale, alle catene e al vuoto implacabile. Loro sono altro, sono oltre. Loro sono la virtù della conoscenza, quella dei costumi buoni davvero. Levigati dal tempo, dall’onestà, dalla purezza.
Le scene, i dialoghi, le musiche sono ricche di questa intensità lieve ed essenziale perché in una Piccola impresa meridionale finalmente il bene e il male sono nella loro intima essenza non nel codice delle regole. Ci sono testa e cuore e non scatole ad incastro obbligato. C’è la verità, agli occhi di chi sa vedere e di chi ha la voglia e il coraggio di vivere la vita rispettandola. C’è l’unico legame degno di essere tenuto sempre saldo: quello della fratellanza.
Che poi il faro, come la mamma, possano contenere e comprendere tutto, è la chiave sottile di una dimensione metaforica incantevole.
La sceneggiatura acuta e brillante di R.Papaleo e Valter Lupo una regia delicata e originale calano i pensieri, le emozioni, i desideri e i passi in uno sviluppo denso di sfumature. Vivace, a tratti esilarante, sul filo dell’equilibrio e della caduta.
In questo è formidabile, Rocco Papaleo. Nell’ironia e nella leggerezza. Nel garbo asciutto e nell’intelligenza sublime che si mescolano fino a togliere il velo dalla commedia della vita per raccontare quello che siamo e potremmo (o dovremmo!) essere. Il cast è eccezionale: Rocco Papaleo, Riccardo Scamarcio, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum, Claudia Potenza, Giuliana Lojodice, Giovanni Esposito, Mela Esposito, Giampiero Schiano, tutti di una bravura assoluta.
Invece del piglio della lezione, Rocco Papaleo ha il talento del messaggio sommesso dunque la critica, sulla  sua “ribellione sottovoce”, non è mai troppo generosa si sa. Le doti intellettuali per un movimento più vigoroso e incisivo Papaleo le avrebbe tutte e forse qualcuno invocherebbe da lui un tono più alto, una bella voce incisiva e stentorea.
Ma la luce del faro, credetemi, arriva forte e piena. Nella vibrazione delle parole e dei risvolti, nei simboli limpidi, nell’entusiasmante disegno del futuro. Si tratta solo, davanti a un film ENORME, di sedersi da spettatori di buona volontà. Talvolta nelle piccole imprese risiedono i grandi valori…
E, comunque, Rocco Papaleo, amico mio carissimo, adesso il faro è lì, basta lasciarsi illuminare. E tu, ne sono certa, lo farai. La speranza è con noi, sempre.

mercoledì 16 ottobre 2013

Paese mio che stai sulla collina

E’ il paese dalle mani grandi e dagli sguardi bassi. Sul colle alto, sotto il cielo che scotta, tra le piante da frutta. Con la farina da impastare, la legna da tagliare, l’uva da vendemmiare. E i desideri che vivono oltre ogni vita. Sulle ciglia che scivolano nel sonno, sul lento risveglio di caffè bollente.
Ha tutte le case in fila, pronte ad affacciarsi sui passi della strada. Con la parola schietta che viaggia senza confezione, dalle teste ai cuori e dai cuori alle teste. Nella risata sommessa che si schiude di tanto in tanto, come un campanellino che trilla garbato. Dagli usci che si aprono e si chiudono in continuazione, fuori e dentro le ore.

E’ il paese appeso al muro come un quadro. Che sventola come una bandiera quando si alza il vento.
Che sarà...

martedì 15 ottobre 2013

La musica che gira intorno

Il vecchio vinile non ha più il giradischi. Ti guarda impolverato e graffiato e tu non hai il fegato di buttarlo. Pensi che tornerà, il giradischi. O che lo terrai lì, impolverato e graffiato, a farti compagnia. Come la memoria.
Che non hai neanche bisogno di sentirlo, la canzone l’hai scritta nel fiato e nelle tue orecchie non salta una nota.
Chissà cosa ci trovi, nel passato che non puoi seppellire. In quella forza che torna sempre a farti pensare e cantare, in quel suono che ha tutti i brividi che la tua pelle riconosce.
Chissà che emozioni hai conservato sulla copertina sgualcita dalle mani, dalle lacrime e dai sorrisi.
Chissà quante storie dietro un ritornello. Le tue e quelle che si sono mescolate alle tue, quando tutte le puntine facevano librare il ritmo nell’aria. Quando il tempo del cuore stava anche in quel rito, del giradischi e del vinile. Quando tutto intorno era diverso. O quando tu eri diverso.

Ne approfitto per ricordare La musica che gira intorno di Ivano Fossati.

mercoledì 9 ottobre 2013

Un pezzo di Basilicata sott'acqua...

…sta tirando fuori la testa da sola.
Il silenzio dell’informazione nazionale spacca i timpani. Perché la pioggia può essere spietata ma l’Italia intera non dovrebbe.
Siamo abituati all’emergenza che rimbalza su tv e giornali, talvolta perfino amplificata per un curioso gusto di cronaca della catastrofe. Ma questa volta la calamità sembra sfuggita alle attenzioni generali, passata in sordina, quasi censurata.
Forse la terra di Basilicata non grida abbastanza, si rimbocca paziente le maniche, conosce la legge della natura e della rassegnazione e non crea mai troppe preoccupazioni. O forse c’è un’indifferenza che, ingrata, si consegna proprio a chi è già sotto un cielo non proprio pieno di stelle.
E’ l’orribile logica della forza, temo. Quella che è facile avere ed esercitare su chi non tira fuori i muscoli.
Non ci sono risorse nella nostra Italia in crisi, neanche quando il caso si accanisce. Ogni
comunità è chiamata a cavarsela, come può. A questo possiamo, o almeno dobbiamo, adeguarci. Ma non possiamo arrenderci anche a un’Italia che ignora e non esprime una parola di conforto e solidarietà.
Senza facebook e i rivoli della rete il disastro in Basilicata non avrebbe avuto neanche la dignità di notizia. Questa è una realtà sconcertante. Battente e dolorosa come un’alluvione.

Le voci di comprensione non asciugano e non riparano i danni ma forse fanno sopravvivere l’umanità e la giustizia. Se scegliamo di tacere ci lasciamo travolgere da una disgrazia più sconvolgente di quelle della natura e del destino: la morte della civiltà. 

sabato 5 ottobre 2013

Il pane e frittata di mia madre

Vengo dopo di lui, come se fosse il tg.
Con un’altra frittata e un’altra madre. Ma con il senso perfetto delle sensazioni.
Non quelle di casa e idillio, in stile Mulino Bianco. Quelle che sono spirito di qualcosa. Magari in profumi e sapori. Forse in atmosfere. Sicuramente in autentici orizzonti.
Non bastano le tracce dove stanno appiccicati i ricordi. Non ci vuole per forza l’olio che sfrigola in padella. Ci vuole il cuore complice. E la testa che mette i piedi al posto giusto. Il pane si “sponza” soprattutto di ricerche e scoperte. Altrimenti è una catena. E le catene, si sa, spezzano le ali.
Il pane e frittata di mia madre è buono se ti ha fatto crescere e, appunto, volare.
Se ti ha insegnato l’appetito e il piacere, che sono molto di più della fame e della sazietà.
Grazie all’amico Rocco Papaleo per l’ispirazione, che il pane e frittata di mia madre è suo.

(agosto 2013)

giovedì 3 ottobre 2013

L'ebbrezza dei tetti

Io ci sono stata, sui tetti. Tanti tetti, tante volte. Senza imbracature. In barba alla prudenza e a tutte le buone norme di sicurezza. Come sul fronte della roccia ferita che, a strapiombo, lacerava tutto. E adesso lo posso pure scrivere, il tempo si è portato via gli obblighi e le sanzioni. E mi ha lasciato viva e intera. Doveva andare così, il mio destino non prevedeva rovinassi dalle altezze.
Adesso penso diversamente a te. Che urlavi perché scendessi. Che tiravi un sospiro di sollievo quando mi rivedevi con i piedi saldi a terra. Che poi ci sorridevi, su quelle che erano le mie stravaganti audacie di passione e dovere. Perché le capivi, si le capivi, anche quando scuotevi la testa, mi supplicavi di stare attenta, mi dicevi che avevo un senso esasperato del servizio.
Se allora mi divertivi e mi commuovevi, collega per un drammatico caso, oggi mi dai la misura delle combinazioni. Se allora la tua stima e la tua fiducia mi arrivavano come un giudizio generoso delle difficili circostanze, oggi le sento come una traccia.
Grandi opere. Bastano due parole, corte e abusate, e mi vieni in mente tu. Ne sappiamo qualcosa, tu ed io. Di quelle vere. Che non pronunciavamo neanche, a testa bassa, con le lacrime agli occhi, alla vista che ci tagliava le gambe. Col fiato che il disastro ci aveva allenato.
Ecco perché ti arrendevi entusiasta. Ecco perché le capivi, la forza e le bizzarrie. Erano
impellenze, sarei caduta solo se non avessi dato tutta me stessa. E tu, che di calcoli te ne intendevi, mi hai allargato addosso uno sguardo illuminato da un sospiro: “I calcolatori non possono essere creativi. Per essere creativi occorre generare qualcosa, ma i calcolatori non generano nulla. Eseguono solo il programma” (Ada Byron).

Grazie ing., per i ricordi e per molto di più.

Portentosa lingua

La memoria srotolata come la lingua sul gelato che cola lungo il cono. Il gusto e l’effetto. Come edera arrampicata ad abbracciare il muro nel complice sussurro di foglie.
Non ci sono cocci ma tasselli da incastrare. Con la pazienza che arriva alle mani perché l’amore ti fa mettere cura. Scarti i baci per leggere il pensiero, quello che se è buono raddrizza qualsiasi giornata. E la lingua raccoglie ancora i piaceri, generosa te li fa scivolare dentro.
Valle a spiegare diversamente le emozioni, quelle che aprono i cassetti e saltano fuori. Quando meno te l’aspetti. Proprio perché non te l’aspetti, forse.

Le sensazioni che te ne fanno rimbalzare addosso altre mille. Le rime perfette in punta di penna senza che il pensiero le abbia cercate. Incanto della realtà, che la sa assai più lunga dei parti mentali.

martedì 1 ottobre 2013

Il cimitero dei vivi

Ci penso spesso, all’Antologia di Spoon River. L’intensità di una poesia prestata al ruolo di epitaffio è sublime, o almeno lo è nelle sfumature di quel genio di Edgar Lee Masters che tutto il mondo di veri lettori conosce.
Al di là dei grandi messaggi, per i quali vale sempre la pena rileggerlo, mi piace sfogliarlo per meditazioni arditamente inverse. Bramo di poter leggere e scrivere gli aliti che si aggirano ancora vitali in prossimità del viale dei cipressi. Ovvero le storie che stanno prendendo il volo, a un passo dalla sepoltura che tanto avvicina terra e cielo.
Non le ultima volontà, che per improvvida o sacra ragione si lasciano ai posteri. Ma le ultime espressioni dell’esistenza. Altro che rimorsi e rimpianti, uguali per tutti come battiti di ciglia. Intime effervescenze, tempeste di desideri. 
E non è sinistro chiamare la raccolta cimitero, se l'accoglienza alle anime è quella della festa degli ultimi sensi. Anzi.