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lunedì 24 febbraio 2014

Nu juorno buono

Rocco Hunt, il simpatico e bravo rapper salernitano, non segue proprio ‘o pallon perché la sua passione è o’ microfon.
Mi piace, Rocco Hunt. Mi piace molto meno precisare la provenienza e sorridere di una ‘fede’ diversa da quella del calcio. Ma l’Italia è anche l’unità incompiuta, una sotterranea (neanche troppo) perenne incomprensione, un campo minato di campanili e una enorme periferia che deve avvicinarsi ai centri per emergere.
Se tutti ci rendessimo conto che certi disagi sono in realtà spalmati esattamente da nord a sud, che la forza enorme sta nella complicità, che nel mondo ‘globalizzato’ Milano e Roma potrebbero non essere gli unici spazi di opportunità avremmo vinto molto più della Lotteria Italia di tutti i tempi ma facciamo ancora fatica a compiere questo facilissimo salto di pensiero.
E insomma Rocco Hunt diventa al Festival di Sanremo una sorta di nuovo simbolo campano come Arisa per la Basilicata. Indubbiamente da artisti dovrebbero gioire di essere orgoglio della musica più che orgoglio di uno spicchio di terra ma a loro tocca come a molti altri barcamenarsi tra radici e presente o, meglio, futuro. Essere portatori di una convinzione: che il talento o giù di lì sono cose che nascono ovunque.
Questo discorso mi sconforta sempre un po’. Mi ritrovo con la classica speranza che sa di finire disperatamente disillusa. D’altra parte…se non ora quando? Almeno bisogna esprimerla ‘questa cosa’ che ci tarpa le ali, questo frazionamento che ci indebolisce, questo assurdo rifiuto di cogliere un valore che rappresenterebbe il vero trampolino di lancio del Paese intero. Intero.
Sogno nu juorno buono per l’Italia. Parrà strano ma mi sento italiana e già mi pare una piccola grande ‘miseria’ perché preferirei sentirmi sempre e solo una terrestre.
Rocco Hunt il tuo accento si deve sentire ma anche tu staresti a meraviglia, come me, in un Paese che non ha bisogno di cantarlo per infrangere pregiudizi, rivendicare le bontà, difendere la vita e i sogni.

In bocca al lupo, carissimo rapper.

lunedì 17 febbraio 2014

L’arte perduta della gratitudine

Del prolifico Alexander McCall Smith, mea culpa, non avevo ancora letto libri.
Ho rimediato con L’arte perduta della gratitudine e ora so che cercherò di recuperare godendomi altre sue opere.
Probabilmente è ancora più famosa la sua detective Precious Ramotswe della No. 1 Ladies Detective Agency ma anche Isabel Dalhousie, filosofa e direttrice della Rivista di Etica applicata, immagino abbia una nutrita schiera di lettori.
La narrazione di Alexander McCall Smith è di quelle allettanti: fluida e originale. Isabel Dalhousie poi è proprio l’esempio di etica applicata del quale francamente si avverte bisogno nella nostra vita. A tratti quasi maniacale ma disperatamente affascinante. D’accordo, quel pizzico di ansia che il comportamento corretto e l’analisi morale portano alla quotidianità può talvolta dare al racconto un tono vagamente ‘ossessivo’ ma la verità è che un personaggio così riconcilia con la buona volontà e la speranza.
L’intensità della storia in fondo è tutta lì, in quella continua ricerca di sostenere l’onestà intellettuale, di reggere sincerità e generosità anche quando il prossimo mette a dura prova. La filosofa Dalhouise è moglie e madre, conduce un’esistenza ‘normale’ e si imbatte in scivolose circostanze unicamente per quella personalità aperta, sensata, profonda. Non sono gesta clamorose a scaldare la trama ma il volo dei pensieri e delle parole sui piccoli o grandi nei dell’umanità, sul terreno incerto delle relazioni, sui meccanismi del comportamento tra interesse personale e senso di responsabilità.
Fa sorridere e riflettere l’avventura spirituale di Isabel Dalhousie. E Alexander McCall Smith ha la capacità di farcela esplorare tra leggerezze e sguardi intensi nelle pieghe più complicate di uomini e donne nell’ordinario cammino quotidiano. Con Isabel che non può fare a meno di interrogarsi su tutto e tutto e un geniale e delicato marito musicista che sa battere il tempo con poetico spessore.

Una lettura molto gradevole.

martedì 11 febbraio 2014

L'Atelier dei miracoli

Quello di Valérie Tong Cuong è un romanzo che mi ha fatto sorridere e commuovere come pochi. Il merito è sicuramente di una storia singolare, di una narrazione originale e di
un’analisi affascinante quanto importante. Ma è anche di quella straordinaria coincidenza che talvolta ci fa incontrare una lettura al momento giusto.
Il tema di fondo che Valérie cala in una trama avvincente è di quelli che scottano tra le mani di una osservatrice del costume e pesa sul cuore di chiunque rifletta sugli equilibri delle relazioni umane, sulle dinamiche dell’egoismo e dell’altruismo, sulle espressioni di individualismo o di solidarietà.
In quella terra scivolosa del bene e del male, della felicità e della solitudine, dei bisogni e della magnanimità troviamo tutto quello che siamo, che ci tormenta o ci anima. Millie, Mariette e Mike che conoscono a loro modo l’abisso incontrano Jean e il suo Atelier dei miracoli che rappresentano la mano della provvidenza o la porta verso la felicità.
La verità è molto complessa e si dipana lungo il percorso di risalita, l’uscita dalle crisi personali, lo scambio di bontà e cattiveria, il confronto serrato e sconvolgente. Jean che aiuta e manipola, l’Atelier come catena di intrecci tra benessere proprio e altrui, Millie, Mariette e Mike con un intenso quadretto intorno che scoprono, provano, trovano se stessi attraverso il dolore e la profondità della consapevolezza.
La generosità e il tornaconto privato e intimo sono la ruota panoramica che trasporta tutti, a ritmo più o meno vorticoso. Nella disperazione e nella gioia gli altri sono spalla, specchio, fastidio o desiderio. E’ il limite degli uomini e delle donne farsi sfuggire il limite, almeno talvolta. Non afferrare che tutto è collegato, che le parole, i gesti, le disposizioni di spirito azionano leve di continuo.
Sta nella fragilità, nelle brutture, nei segreti scabrosi la realtà che l’Atelier può svelare riportando tutti nella pagina della vita. Quella dei legami e della libertà, quella dei sentimenti e delle delusioni, quella dei sogni e delle ferite.
La salvezza arriva davvero in modo inaspettato, per tutti. E alla fine di un arduo cammino. Faccia a faccia con le emozioni e con il labirinto della ragione e delle personalità l’Atelier compie il miracolo di rompere indugi e apparenze, di andare oltre le singole zone di luce e ombra, di capire cosa c’è dentro ogni bagaglio e quante cose si possono trovare fuori dal tunnel della cecità o della paura o della convenzione.
Valérie Tong Cuong è capace di raccontare con realismo e romanticismo insieme in una sorta di agenda quotidiana nella quale il lettore trova intatti i conti in sospeso, i desideri, i propositi, gli appuntamenti. Quelli meticolosamente annotati, quelli accennati a matita, quelli che non scriviamo e lasciamo con la polvere sotto il tappeto.
Brava a indagare tra i pensieri. Brava a incidere senza togliere il respiro.

Attualissimo l’Atelier dei miracoli in una società in crisi morale e umorale e, troppe volte, superficiale. Fare qualcosa per gli altri risponde alla necessità di ricevere qualcosa dagli altri? Se il circuito è virtuoso vale la pena di incamminarci. E, comunque, di leggere il libro.