Pagine

martedì 28 maggio 2013

La nonna cuciva

C.Riccardi, Vecchia che cuce
Fino all’ultimo soffio di vita. Con il corpo stanco e la schiena curva, nel silenzio della sordità, dietro la nebbia degli occhi, la nonna cuciva. Per rammendare qualcosa, per attaccare un bottone, per dare ancora un senso alle mani e alle ore.
Tra le rughe l’espressione era placida, quello era il tempo che fermava il tempo. Era ancora utile, con l’ago e il filo. Ogni punto era un metro di vita, una domanda e una risposta che ancora si incontravano. Sulla sedia impagliata o sulla vecchia poltrona e, appena l’aria lo permetteva, sulla soglia, nell’odore del giorno che muoveva passi e saluti. Magari davanti ai gerani, quelli che amava.
Qualche volta con i dolori delle dita deformate che non ne volevano sapere di infilarsi nel ditale. E qualche volta con quel tremore che si replicava negli orli. Era una pena fallire, non per la fatica che a quella non si sottraeva mai, perché si sentiva scivolare di mano la generosa operosità. Che effetto ripensarci. Capire quanta dignità c’era in ogni sforzo, nell’ostinazione di fare e dare, nell’amore del lavoro.
Anche uno straccio sembrava oro nella sua devozione, in quel rispetto antico delle cose, nella passione semplice per la bellezza pura. Istinto e passione in uno scrigno di garbo naturale. A me più della destrezza piaceva questo, la dedizione. E quando ero contenta di una cucitura vedevo un sorriso nei suoi occhi che era luminoso e caldo come il sole.

Adesso che i ricordi mi commuovono so che sto invecchiando…

lunedì 27 maggio 2013

Lavat e st-nnut

I panni stesi fanno rima con chi li indossa, con le mani che li hanno lavati e appesi al vento. Poesia dei gesti quotidiani, del governo della casa, della storia che vestono.
Anime che asciugano al sole per rinnovarsi in passi e pose, per tornare sulla tavola o nel letto del candido riposo.
Disegnano bizzarre figure nel volteggio dai fili, con le mollette che li trattengono nel raggio di casa, come gioielli da custodire con cura. Cupi o sgargianti, da lavoro o da festa, i panni lavat e st-nnut sono come l’album di famiglia, zeppo di foto e di ragioni di vita.
E qui, alla luce o al tramonto di Basilicata, dove lo spirito e la malia delle arcane cose della vita sono più forti che in ogni dove, li puoi trovare sui balconi o nei cortili come in piazza o lungo il corso. Di paese in paese, come una processione devota, come una mostra a cielo aperto. Più che fierezza, verità. Quella dell’essenziale che si svela in istinto. Più commovente e intensa di qualsiasi sublime verso: poesia della realtà, senza parole che la narrino bella.
(Se vi state chiedendo come si concilia il costume con la buona creanza lucana siete lontani, assai, dalla linfa del cammino su questa terra).

Ringrazio Carlo Pastore per la fotografia di Pisticci, rione Dirupo (MT).

venerdì 24 maggio 2013

Cercasi ghostwriter (per uomini politici)

I politici cercano ghostwriter. E, se ancora non li cercano, dovrebbero cominciare a farlo. Per il loro bene, almeno.
Non è una novità che molti libri, discorsi, relazioni, comunicati di uomini politici siano
opera di un bravo ghostwriter. Ma è altrettanto noto che alcuni nutrano ancora la convinzione di potersela cavare egregiamente senza l’aiuto di un professionista. L’evidenza dei risultati è tale che non occorre aggiungere commenti.
Talvolta è puramente questione di fiducia, in verità.
Il politico, l’uomo d’affari, l’economista hanno bisogno di qualcuno al loro “servizio ideologico”, devono fidarsi ciecamente di chi prepara loro un testo da leggere o divulgare. In pratica sono sostanzialmente portati a considerare essenziale che il ghost sia sulla loro stessa “lunghezza d’onda”.
Da ghostwriter, svelato ormai che lo sono, non ho smanie per il servizio ai politici. Forse è paura, chissà. Eppure mi interrogo. Sarebbe sicuramente una sfida avvincente prestare testa e tastiera a un messaggio che condivido, a un risultato che sogno, a un ambito sociale che mi sta a cuore.
Ma sarebbe possibile fare altrettanto per qualcuno che rappresenta posizioni culturali molto distanti dalle mie? Istintivamente potrei immaginare una dura battaglia con coscienza e convinzioni.
Eppure paradossalmente ma non troppo, pur se mi inquieta un po’, un ghostwriter al soldo di chi non lo entusiasma o non gli piace, deve mettere in atto una strategia molto più scientifica, senza svolazzi personali, strettamente aderente allo scopo e quindi potenzialmente assai attendibile. Le energie canalizzate all’obiettivo senza enfasi da partecipazione psicologica possono produrre effetti straordinari.
Dipende da una serie di variabili e contesti, intendiamoci. In certi casi un approccio emotivo può giovare alla credibilità e alla persuasione, in altri appunto un taglio rigoroso è decisamente più efficace.
Peraltro il polso della realtà (pure quella “avversaria”, ecco il punto) e la conoscenza a priori di qualsiasi obiezione e reazione sono strumenti di incredibile valore per la prestazione del ghostwriter.
Non mi chiamo Amleto, sto solo giocando con una bilancia in tilt.
Vi saluto e torno a maneggiare parole con entusiasmo e dedizione tra racconti, saggi, manuali e romanzi. 
Tranquilli, sono ordinarie riflessioni di un ghostwriter. 

mercoledì 22 maggio 2013

U.S.A. l’appartenenza della volontà


Possiamo chiamarlo orgoglio americano, spirito di patria o, forse, strategia culturale della necessità. Non ho approfondito abbastanza storia e pensiero degli U.S.A. per permettermi una visione attendibile. Ne ho sempre e solo colto, se mai, un monito importante e, per molti versi, estremamente affascinante.
Non è questione di simpatia ma di realismo, innanzi tutto.
Il nazionalismo americano ha sempre stimolato interesse perché è espresso da una comunità di persone con radici, tradizioni e lingue molte diverse che hanno compiuto un vero e proprio processo di identificazione sotto la bandiera a stelle e strisce.
Non vi è dubbio, credo, che sia stato lungo e tormentato, che anzi non sia mai del tutto compiuto, che possa aver mortificato delle specificità, che porti con sé risvolti irrisolti, che richieda grande guida politica. Non c’è rosa senza spine, ecco.
Eppure è un popolo. O almeno come popolo lo consideriamo, a livello emotivo. I colori e i costumi si sono mescolati fino a far nascere l’impronta americana, la mentalità americana, la devozione americana. Le divisioni, forse anche lacerazioni, come le questioni difficili, di convivenza e di incastro, sono nel tessuto sociale ed economico ma vengono scarsamente percepite da fuori. Noi pensiamo agli “americani” come corpo unico pur se siamo consapevoli degli infiniti intrecci.
Probabilmente molte sofferte derivazioni hanno originato un desiderio intenso di terra e simboli di appartenenza. E, d’altra parte, una grande terra ha dato a tutti un senso di prospettiva possibile. Una combinazione che ha creato un legame stretto con il concetto di patria. Necessità e speranza sono motori potenti di viaggio e di aggregazione.
Però ho sempre pensato che il “sistema” ha retto perché ha anche imposto la responsabilità di quella scelta di appartenenza. Il sistema ha chiesto a tutti quelli che volevano essere o si dicevano cittadini americani di dimostrarlo ogni giorno, almeno al mondo. Si, se non poteva o voleva garantire che la fusione fosse perfetta all’interno, ha preteso che giungesse tale all’esterno.
Per fare questo non era necessario far rinnegare le origini ma canalizzare le risorse delle origini nell’americanità. D’altra parte, era essenziale sostenere con peculiare forza il rispetto delle regole e instillare il valore. Ecco, il passaggio chiave è proprio nel meccanismo, lungimirante, della tattica politico-culturale che pare vestirti di dignità quando ti fa sentire americano ma proprio per questo ti chiede in cambio di esserlo.
Sono meditazioni istintive, le mie. Ma in fondo è questa percezione a fiuto a contare molto. Oggi più che mai il “modello americano” suggerisce, nel bene e nel male intendiamoci, riferimenti significativi per il cammino di tutti.
“L’integrazione” nella quale ci avventuriamo senza orgoglio di popolo non è autentica. Rischia di essere solo un’operazione contingente e fasulla. Piaccia o non garbi le unioni si reggono solo intorno a un nucleo di condivisione reale.
Questione di volontà, l’appartenenza.

giovedì 16 maggio 2013

Riconoscere le cose


Io ho tanto bisogno di compagnia quanto di solitudine. Amo il rumore quanto posso amare il silenzio. Salvo speciali affinità, se desidero toccare davvero qualcosa devo essere sola.
Che senso ha mescolare mille sensazioni senza che nessuna abbia spazio per essere goduta davvero?
Non siamo fatti per vivere in un momento solo tanti momenti. Il pensiero chiede devozione. D’altra parte rispettiamo le cose quando rispettiamo noi stessi, quando ci diamo il tempo di una relazione con loro, quando smettiamo di arruffare parole e gesti, quando non infiliamo la vita in un calderone.
Se mai un momento può condensare così tante emozioni e occasioni da valerne dieci o cento o diecimila. Ecco, per accorgercene dobbiamo esserci dentro tutti interi.
E poi, diciamolo, c’è un’intimità della scoperta che non possiamo in alcun modo raggiungere se non ci troviamo sperduti e muti…
Ci sono energie che sprigioniamo o catturiamo solo così, nel buio assorto, nella campagna desolata, sulla spiaggia deserta, in cima alla montagna silente. Specie se camminiamo, scaricando sulla fatica le tensioni, ci allontaniamo dalla smania di mescolare brividi e risate, prendiamo le distanze dalla tentazione di stritolare tutto nella superficialità.
Capire le cose è molto più che incontrarle. Per questo dobbiamo dedicare loro molto più di uno sguardo.
E per questo “Soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose” (Pier Paolo Pasolini).

mercoledì 15 maggio 2013

L'ape mi piace


Non so come ancora mi piaci, Ape.
Tu sei quella dello scontro, quella dell’orribile ricordo. Con tutto il piombo che portavi altro che finire chissà dove, hai retto all’urto, ad accartocciarsi è stata la macchina sulla quale viaggiavo. Dopo tanti anni ancora ci penso, qualche volta sento pure il rumore. E quelle foto, terribili, non riesco a strapparle.
Eppure ancora mi piaci, Ape. Forse perché la colpa è stata di quella guida maldestra, di quel carico che quasi ti schiacciava a terra, fosse stato solo per te non avrei quella disavventura nell’album della memoria. E così anche oggi ti guardo e sorrido.
Ape, il mezzo da lavoro. Ape, ti vedo con il volante tra le mani robuste di un viso con le rughe, chissà perché. Ti vedo trasportare attrezzi e masserizie. Semplice, asciutta e scattante. Con quel rombo da moto su quello scheletro essenziale, con quell’andatura sbilenca che ti fa tremare. Roba da emozione storica.
E mi piace chi ti conserva con cura. Tra le viuzze strette con le salite impervie, sotto il sole che cuoce il braccio fuori dal finestrino. Tu sei stata un’invenzione geniale ma, soprattutto, sei un pezzo di cuore. Anche di quello ferito da quel botto clamoroso. Perché quando ti ho visto là, a ingombrare la strada, ho avuto paura che ti avremmo travolto e distrutto. Non è andata proprio così, ne sei uscita meglio del bolide e di me e, tutto sommato, ne sono felice.

domenica 12 maggio 2013

Ghostwriter e cromoterapia


La scrittura è stata un cammino di piacere e autonalisi, un confronto continuo con le sfumature della realtà e della fantasia e con le dimensioni e le dinamiche del pensiero. Arrivo alle parole nel viaggio di conoscenza emotiva, ecco.
Quella di ghost però è un’esperienza “ulteriore”, altra, oltre confine. Una storia che arriva è come un pacco sorpresa, uno spazio che mi trovo a indagare e toccare in uno stato di grazia assoluto. Non c’è l’ingombro del mio limite, dentro. La apro senza il fardello dei miei timori o pudori, è dimensione libera. La prendo in mano con la gioia curiosa della bambina e poi la godo con il respiro da adulta, con la pienezza dello spirito lieve e della maturità serena.
E’ stato questo il regalo del viaggio. La consapevolezza dell’infinito. Quella scoperta da vivere con tutti i sensi leggeri e, proprio per questo, più vivaci e ricettivi che mai.
Più ci entro dentro, in una storia come nella vita, più incontro energie e trovo risposte.
Folgorazioni, talvolta. O piccole e grandi razioni di nutrimento della sensibilità. Quella sotto pelle, magari. O quella soglia di conoscenza con la quale ti accorgi di crescere, in intelletto e azioni.

Rifletto, piango, sorrido, immagazzino. E tutti i pezzi si incastrano, uno dopo l’altro, perfetti, come se il puzzle fosse un po’ meno impossibile.
E’ la meraviglia di ciò che non mi appartiene e diventa in qualche modo mio, come un’occasione speciale per sapere qualcosa, per capire qualcosa, per vedere oltre l’orizzonte dei miei occhi.
Come l’effetto prodigioso dei colori che avvertivo e non potevo spiegare. Che quasi
nessuno poteva credere che fossi proprio io ad amarli e onorarli così, io sempre devota e felice nel nero e nel bianco, con una punta di grigio solo di rado. Quelli sono i colori degli abiti, signori. Quelli essenziali di uno spirito che ammira il colore fuori perché corrisponde direttamente ai bottoni della mente. Nero e bianco, anzi, sono i toni giusti per percepire e accogliere gli input del giallo o del rosso. Altro che scettica o indifferente ai colori, io anelo al verde come al blu e all’ocra.
Scatenanti colori. Intorno a me, davanti a me, tra le mie mani. Come il soffio di una storia.
Io, di nero e bianco vestita, li distinguo. Ne sento l’affanno, la malinconia, l’euforia, la quiete.
E, ancora una volta, aggiungo un tassello. Il cielo si avvicina.

Buonanotte suonatori


Magari è un matrimonio, un battesimo, una comunione oppure una cresima che importa? Ci sono tutti, come alla festa del patrono. Pure gli zii d’America che aspettavano l’occasione per tornare al paese.
Sorrisi sotto le pieghe fresche e sui volti appena rasati, la macchina pulita, le mani che salutano, i vecchi alla finestra a seguire il via vai. Con il vestito buono del colore giusto, che bianco e nero non si mettono. Con il soprabito blu che fa bella figura e se fa fresco ti salva. C’è una messa, il rito che si compie, le lacrime e gli applausi, gli uomini che aspettano sul piazzale con la sigaretta in bocca, sotto il cappello elegante che la coppola va'
bene per i giorni di lavoro.
Tutti pronti per i brindisi e per i baci. La giornata è lunga, si parla e si ride e il cibo non finisce mai come il click delle foto, come i sospiri e i ricordi che scorrono a fiumi nel presente che non dimentica mai il passato. Ora dopo ora, con la stessa incrollabile dedizione. Le scarpe fanno male, il trucco disegna una maschera, i piccoli frignano e le nonne sono stanche ma la festa continua. C’è ancora la torta, quella grande. E non basta. Che tutti aspettano le delizie fatte in casa, quelle della tradizione che guai a tradire. E in alto i calici. Qualcuno grida una dedica e non c’è anima che non esulti, con l’emozione che trabocca.
Si leva la musica, si aprono le danze. Allegria di colori e volteggi, una confusione di corpi e parole, di bottiglie vuote, di pensieri leggeri, di auguri d’affetto. Tutti vicini, fradici di euforia e di armonia. La banda suona, deve cantare quel pezzo, forza, evviva, eccita i passi, fa il bis.
Ci sono tutti, come alla festa del patrono. Fino al buio o fino all’alba, fino allo sfinimento felice. E buonanotte, buonanotte suonatori. Grazie, la festa dell’album rimane nel cuore.

sabato 11 maggio 2013

Nudità

C.Corot - Ragazza in verde -

E’ l’opera celeste, la nudità asciutta della vita che sta nel corpo.
Non è un gioiello fragile in una teca ma un tesoro così grande e forte che non sta nel tuo abbraccio, scotta di una passione quasi feroce, si allarga oltre il tuo sguardo.
Sta nella terra, non è fiore reciso, non la compri a mazzi. Conosci le radici solo se le tocchi, se lasci che l’odore impregni le tue narici, se non hai paura di startene curvo sotto il sole a guardare le foglie e poi i fiori e poi le stagioni che scrivono ogni respiro.
E ci sono i passi lenti e le movenze seducenti e le grida accorate e i silenzi densi e i sorrisi felici. Sulla nudità, nella nudità. Con tutto l’amore che c’è dentro, nell’opera celeste.
Magari è dolore, forse è piacere, qualche volta speranza altre tormento.
Bella, l’opera celeste. Che storpia o vecchia ha nell’anima il miracolo che si compie, inspiegabile, in ogni tempo e in ogni luogo. Che è l’unica verità indiscutibile che incontriamo. Che è il senso e l’affanno di tutte le cose. Che è il bene e il male degli uomini e delle donne. Estate o inverno che sia.
Non dovrebbe stupirci. Non dovremmo mai smettere di stupirci.
La contraddizione perfetta della nostra natura imperfetta.

sabato 4 maggio 2013

Lavoro offresi


In tempi di disoccupazione qualcuno non trova di meglio che consigliare inventiva e audacia. Impossibile dargli torto se non altro per non esortare al suicidio di massa, ecco. Trovo peraltro che la crisi, potenzialmente, potrebbe davvero svegliare ingegno, creatività, coraggio, intuito.

Però siamo in Italia, dobbiamo ricordarlo. Rimboccarsi le maniche e “costruire” un nuovo lavoro può anche essere, se non facile, almeno pensabile e fattibile. Il guaio successivo è confrontarsi con la realtà delle regole e della remuneratività.

Annusando tra le “professioni” di fresca generazione troviamo il blogger professionista, il community manager, il consulente filosofico, lo chef a domicilio, l’house sitter (declinazione avanzata del vecchio maggiordomo) e l’agricoltore di orti urbani. E fin qui, a occhio e croce, possiamo immaginare formule giuridico più o meno collaudate di qualificazione e gestione di un’attività secondo le norme del mondo del lavoro. Ovvero possiamo riuscire a inquadrare l’attività per similitudine e metterci “in regola” con lo Stato.

Ce ne sono altre più scivolose per le quali immagino il tortuoso cammino per un riconoscimento “legale” che ci metta al sicuro da controlli, sanzioni, divieti e difficoltà varie. Il declutter, ad esempio, ovvero l’organizzatore di spazi per aumentare ordine ed efficienza, o l’home stager che aiuta il proprietario a valorizzare una casa per favorirne le possibilità di vendita. Per non parlare dell’etiquette coach, cioè l’insegnante del moderno galateo, al quale non so bene cosa si richieda perché gli sia attribuita la libertà di “docenza”.

Nell’eventualita' comunque che si superi “l’inghippo linguistico-burocratico-classificatorio”, cosa già ardua perché in Italia non esistono fiducia e accordo interpersonale ma profili professionali, requisiti, obblighi, categorie e adempimenti ferrei, nel nostro amato Paese scopriremmo altamente improbabile la sostenibilità del lavoro faticosamente inventato, regolarizzato e svolto
Già. L’ombra lunga e tenebrosa dei costi di un lavoro autonomo, tra contributi, imposte,
commercialisti, limiti, soglie, tetti e chi più ne ha più ne metta costringerebbero subito a chiudere la saracinesca della buona volontà.
Vivere, e mi riferisco solo ad arrivare a fine mese con un’entrata appena dignitosa, in Italia non è roba da persone valide, ingegnose e intrepide.

Una “politica del lavoro” invocano e promettono tutti, in quel di Roma. Con tanto di allarme per il precariato, per la cassa integrazione che scoppia, per i giovani inoccupati. E francamente a furia di sentirli mi cresce dentro il terrore che non sappiano da dove partire.
La crisi è drammatica e la prima cosa urgente sarebbe semplificare (enormemente) e alleggerire (molto) il fardello del costo del lavoro.

Aggiungerei che ci vorrebbero onestà intellettuale e realismo ma questa è storia universale. Allora mi fermo a un’altra considerazione. La disoccupazione è soprattutto giovanile, lo sento in tv e lo leggo sui giornali. Per strada rilevo un dato opposto: il ragazzo qualche chance, magari a tempo, ce l’ha, la persona che ha superato i 40 anni è fuori, di sicuro non lo assume nessuno. E allora? Rendiamogli almeno la possibilità di inventarsi un lavoro senza intrappolarlo tra burocrazia e gabelle, accidenti.

Liberamente ispirata da L’inventaLavoro di Andrea Sartori, guida alle professioni creative e innovative.

venerdì 3 maggio 2013

Vecchi (di Basilicata)


Non è la terza età, non sono anziani. Loro sono i tuoi vecchi, i miei vecchi, i vecchi della terra. Quelli che trattengono il tempo perché la nostra vita abbia ancora un sapore.
Non possiamo perderli senza una fotografia che ce li ricordi per sempre, un ritaglio che ci faccia luce nel buio del vuoto.
Uno si è accorto del fotografo e abbozza un sorriso, l’altro sta chino sui pensieri, le mani in grembo, il cuore che batte lento nella quiete. Vecchi come le pietre e docili come la saggezza. Vecchi come i cappelli e gli abiti logori di vita.
Acconciano le ore sotto il tiepido sole, nel rito della compagnia e della piazza, con l’arte dell’ozio che finalmente è virtù. Chissà se è bene non bevano un bicchiere di vino come ha detto il medico. Chissà se fa meglio a noi pensare di tenerli in salute, per sempre. Perché fino a quando li vedremo lì sul muretto e si toglieranno il cappello per salutarci saremo sicuramente più sereni.
Non importa se hanno smarrito la memoria, loro sono. Quello che è stato e, soprattutto, quello che dovrebbe ancora essere. Semplici e frugali, così vicino all’odore dell’esistenza che il nostro naso fa fatica ad annusare.
Non è che tu e io ci dobbiamo commuovere. Dobbiamo solo sederci accanto a loro perché sono i vecchi della terra la nostra anima.

Attesa


Felice Casorati, nato a Novara nel 1883 e per sempre fuori e oltre ogni tempo. Nell’essenziale intensità come nell’audacia.
Davanti al gioco di forme come all’ordine lineare delle cose e alla pazienza assorta, ritrovo la trama dei giorni e del destino. E’ la quiete dignitosa, sapienza dell’anima. E’ l’attesa di quello che sarà, già scritto ma ignoto, nella virtù commovente delle pose composte e del lindo rigore. E’ la bellezza incantevole della semplicità fiera e asciutta, dove nulla è fuori posto e le braccia, conserte, non osano smanie.
Umanamente impossibile, forse, non indulgere in speranza o in tristezza ma l’uno o l’altro moto diventano lievi, piccole brezze di istinto senza l’arroganza di dominare la vita.
Felice Casorati e il suo “realismo magico”, Maestri di pittura di Carlo Levi, esprimono un tratto così compiuto, in estetica come in profondità emotiva, da levare il fiato. Incanto puro. Quella tecnica rigorosa che esalta gli attimi, gli sguardi, i silenzi porta in scena una verità immobile che narra volontà, desideri, sentimenti e emozioni più di qualsiasi movimento.
Felice Casorati: "Vorrei saper proclamare la dolcezza di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose immobili e mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno".