Possiamo
chiamarlo orgoglio americano, spirito di patria o, forse, strategia culturale
della necessità. Non ho approfondito abbastanza storia e pensiero degli U.S.A.
per permettermi una visione attendibile. Ne ho sempre e solo colto, se mai, un
monito importante e, per molti versi, estremamente affascinante.
Non
è questione di simpatia ma di realismo, innanzi tutto.
Il
nazionalismo americano ha sempre stimolato interesse perché è espresso da una
comunità di persone con radici, tradizioni e lingue molte diverse che hanno
compiuto un vero e proprio processo di identificazione sotto la bandiera a
stelle e strisce.
Non
vi è dubbio, credo, che sia stato lungo e tormentato, che anzi non sia mai del
tutto compiuto, che possa aver mortificato delle specificità, che porti con sé
risvolti irrisolti, che richieda grande guida politica. Non c’è rosa senza
spine, ecco.
Eppure
è un popolo. O almeno come popolo lo consideriamo, a livello emotivo. I colori
e i costumi si sono mescolati fino a far nascere l’impronta americana, la
mentalità americana, la devozione americana. Le divisioni, forse anche
lacerazioni, come le questioni difficili, di convivenza e di incastro, sono nel
tessuto sociale ed economico ma vengono scarsamente percepite da fuori. Noi
pensiamo agli “americani” come corpo unico pur se siamo consapevoli degli
infiniti intrecci.
Probabilmente
molte sofferte derivazioni hanno originato un desiderio intenso di terra e
simboli di appartenenza. E, d’altra parte, una grande terra ha dato a tutti un
senso di prospettiva possibile. Una combinazione che ha creato un legame
stretto con il concetto di patria. Necessità e speranza sono motori potenti di
viaggio e di aggregazione.
Però
ho sempre pensato che il “sistema” ha retto perché ha anche imposto la
responsabilità di quella scelta di appartenenza. Il sistema ha chiesto a tutti
quelli che volevano essere o si dicevano cittadini americani di dimostrarlo
ogni giorno, almeno al mondo. Si, se non poteva o voleva garantire che la
fusione fosse perfetta all’interno, ha preteso che giungesse tale all’esterno.
Per
fare questo non era necessario far rinnegare le origini ma canalizzare le
risorse delle origini nell’americanità. D’altra parte, era essenziale sostenere
con peculiare forza il rispetto delle regole e instillare il valore. Ecco, il
passaggio chiave è proprio nel meccanismo, lungimirante, della tattica
politico-culturale che pare vestirti di dignità quando ti fa sentire americano
ma proprio per questo ti chiede in cambio di esserlo.
Sono
meditazioni istintive, le mie. Ma in fondo è questa percezione a fiuto a
contare molto. Oggi più che mai il “modello americano” suggerisce, nel bene e
nel male intendiamoci, riferimenti significativi per il cammino di tutti.
“L’integrazione”
nella quale ci avventuriamo senza orgoglio di popolo non è autentica. Rischia
di essere solo un’operazione contingente e fasulla. Piaccia o non garbi le
unioni si reggono solo intorno a un nucleo di condivisione reale.
Questione
di volontà, l’appartenenza.
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