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sabato 26 maggio 2018

E goditela...la vita!


E goditela, la vita! Tu che puoi, quando puoi, finché puoi.
Questo significa rispettare. Rispettare te stesso, la vita, gli altri. Gli altri che magari hanno proprio meno di te da godere.
Goditela, senza cercare chissà dove e chissà cosa. Brucia l’insoddisfazione una volta per tutte. E scendi, dall’arroganza di ignorare chiunque. Conti come tutti, né più né meno.
Abbi cura di ascoltare e vedere. Abbi cura di considerare il dolore e la fatica altrui. Abbi cura di mettere un po’ di delicatezza nei tuoi giorni.
Abbi cura di ricordare che tante volte ci sentiamo soli perché altrettante volte abbiamo lasciato sole altre persone.

giovedì 13 novembre 2014

Gentilezza

Giornata mondiale della gentilezza.

Che lei, la gentilezza, merita altroché una celebrazione. Rispettarla e amarla fa vivere tutti infinitamente meglio.
Nulla è facile, neanche praticare la gentilezza. Quello che è facile però è comprendere al volo quanto sia deliziosamente soddisfacente, distensiva, produttiva. Riconcilia con se stessi, innanzi tutto. E apre una quantità incredibile di porte.
Di sorriso in sorriso l’atto di cortesia è gioia, arma, scoperta. Perché è come una giornata di sole, un panorama mozzafiato, una soluzione. Ci restituisce sempre qualcosa. Ci fa incontrare una pace altrimenti impossibile. Ci consente il traguardo della speranza e talvolta pure del sogno.

Che nella pazienza con la quale le tributiamo affetto ci sono milioni e milioni e milioni di occasioni per comprendere un po’ il bene e il male, il mondo e gli umani, i pensieri e i passi di quello che chiamiamo destino.

sabato 24 maggio 2014

Cerco un ghostwriter

Cerco un ghostwriter: una di quelle mail che leggo con molto piacere, visto che profumano di possibile incarico.
Normalmente sono mail che contengono informazioni, spiegazioni, domande. In qualche caso invece l’autore si cela dietro un nickname e svela praticamente nulla del lavoro che vorrebbe commissionare. Io comprendo un po’ di diffidenza digitale, un po’ di prudenza letteraria e pure un po’ di disagio e uso quanta più possibile delicatezza e gentilezza però, da buon ghostwriter, faccio fatica a ‘calarmi nella parte’ alla cieca.
Rispettare segretezza e riservatezza non può includere disponibilità e offerte senza un sensato riferimento alla concretezza del servizio da rendere. Questo, caro prezioso autore, devi capirlo. Anzi, ammirarlo. La faciloneria con la quale chiunque potrebbe garantirti un best seller con due righe e quattro soldi non fa per te. Tu meriti attenzione e serietà. Per incontrarle, pure per pretenderle, devi prestarne altrettante. Parla chiaro, chiedi, metti alla prova, muovi una corrispondenza. Non lasciare tutto nel mistero, metti in crisi il ghostwriter e rischi di perdere l’occasione di un'esperienza proficua.
Magari una risposta inadeguata o poco esauriente è frutto di scarsi o ambigui spunti e così saltano le possibilità di soddisfacente collaborazione. Le migliori combinazioni nascono dalla reciproca correttezza, dalla fiducia e dall’entusiasmo che siglano un’alleanza.

Infine, stimato e agognato autore, insisti a sondare formazione, stile e sensibilità del ghostwriter, non a chiedergli referenze che, proprio se è persona affidabile, non potrà mai darti. Vorresti tu che spifferasse al mondo di essere la tua penna o la tua tastiera?

giovedì 30 gennaio 2014

Poesia

Lei non si infilava mai nei versi. Come se fossero cose sacre per menti sapienti non osava neanche sfiorarli con il desiderio. Li leggeva incantata e non credeva avrebbe potuto riprodurlo, l’incanto, poggiando le parole nel ritmo di una poesia. Timore, rispetto, amore. E quella vaga sensazione di essere sempre fuori posto nelle cose grandi.
Come se il vuoto dei suoi languori emotivi invece non avesse tutti i profumi di una lirica di dolcezza graffiata. Come se certe sue frasi non avessero dentro tutte le arie e le pause di un respiro metrico. Come se non avesse sempre l’occhio che inquadra quello che ha malinconie o allegrie in attesa di un’ode nuova.
Fino a quel giorno, sulla riva di un fiume che conosceva meglio di qualsiasi ansia o sogno.
Seduta, con la schiena appoggiata al solito albero e le gambe lasciate andare, morbide e lunghe, nell’erba. I versi le sono arrivati sulle labbra come usciti dalla memoria e recitati in un sussurro. Non aveva neppure un taccuino per scriverli. E d’altra parte non sarebbe servito. Non sarebbero sfuggiti al suo cuore, troppa emozione e troppa gioia in quella libertà per perderne le tracce.
<Finalmente!>
La voce alle sue spalle la sorprese a ridere e piangere insieme. Non le era arrivato all’orecchio il rumore dei passi, certa della sua solitudine stava godendo con tutti i sensi, leggera come mai nella sua vita.

Non si voltò, attese che lui le sedesse accanto poi l’abbracciò, scossa dai brividi più belli della sua poesia.
(Giovanni Boldini, profilo di una giovane donna)

sabato 25 gennaio 2014

Togliere il surplus

Bisognerebbe smettere di tacere solo quando abbiamo davvero qualcosa da dire. O da scrivere. L’unico rischio è un silenzio assordante…

Almeno con me stessa ho potuto raggiungere un compromesso che ha l’aria di essere dignitoso: dire o scrivere poco. In effetti era un vecchio desiderio che ora può essere accontentato. Rientra nell’opera di denudamento, fino all’essenziale. E già mi sento più leggera.
(dipinto di Jean Jacques Henner)

lunedì 30 dicembre 2013

Caro anno nuovo

Tu, 2014, sai di avere un anno di vita. Uno!
E sai anche che tanti o tantissimi, forse troppi, finiranno tra un anno a non vedere l’ora di
archiviarti. Il 2013 non ha voluto saperne di essere buono, bello, felice per tutto il mondo e per ciascuno di noi, uomini e donne del mondo.
Io sul mio 2013 avrei molto da scrivere, nel bene e nel male, ma non me ne importa più, sta finendo ed è giusto che i pensieri siano dedicati a te. Non i propositi o i sogni, quelli sono difficili da maneggiare. Che poi si scopre che ci dobbiamo mettere pure la nostra opera sul calendario, facendo qualche patto con il destino magari, quindi la questione diventa complicata o, semplicemente, a più punti di vista. Proprio pensieri, solo pensieri. E il mio è che tu debba avere (e riuscire ad esaudire) un desiderio enorme e meraviglioso: quello di essere amato. L’amore, caro 2014, potrebbe renderti immortale. Un anno di vita in carne ed ossa diventerebbero vita eterna in spirito, capisci?
Fatti ricordare. Per sempre.
Hai più di 24 ore di tempo per mescolare gli ingredienti e produrre la deliziosa pietanza che attendiamo. Ti porto io a fare spesa al supermercato così puoi recuperare in un lampo giustizia, pace, libertà, umiltà e sincerità. Vorrei tu infilassi pure appropriate quantità di intelligenza e simpatia, le trovo indispensabili! Gradirei suggerirti anche dosi abbondanti di altruismo, sensibilità, lealtà ma, in fondo, immagino tu sia ben informato sui sentimenti e sui caratteri che servono a fare un piatto indimenticabile. Devi solo volerlo, amico mio.

Da parte mia posso prometterti che, se lo meriterai, avrò cura di onorarti, portarti nel cuore e celebrarti fino al mio ultimo respiro.

sabato 28 dicembre 2013

Storia vera della bontà

Te li suggerisco io, i pensieri a mani giunte. Quei versi che un po’ somigliano a preghiere perché, in fondo, se dal cielo esaudiscono il desiderio non ti dispiacerebbe. Certo non osi dirlo, che è una preghiera. Per così poco…Mi pare di leggertela nel respiro questa misura.
Lo faccio in un sussurro quasi che a tirar fuori la voce troppo forte si scomodino le curiosità che è meglio tenere alla larga, per pudore. O, chissà, per scaramanzia. Mi pare di soffiare nel mirino, quello delle bolle di sapone. Così poi ci sgrano sopra gli occhi, sui pensieri a mani giunte suggeriti in un sussurro. Perché sono belli e delicati proprio come le bolle di sapone. Ci sto dentro leggera, assorta e calda, nella tua storia a strati, impacchettata un po’ alla volta nei sogni, nelle frasi, nelle pieghe.
Tu che ne sei innamorato e io che inizio a capire che non potresti non esserlo. Nella bontà che si srotola come una passatoia per accogliere un cammino sotto le stelle. Nessun fuoco d’artificio, a te fanno tremare di paura anche se ti piacciono le luci colorate. Solo piccole paste frolle fatte in casa, con cura, dolci al punto giusto, con la consistenza perfetta della ricetta della nonna. E io che mi sciolgo, nel piacere della gola e nell’emozione che fa brillare gli occhi.
Cosa vuoi che sia, un sentimento, un paese, un giorno strappato al caso. Eppure c’è l’arcobaleno in festa, nel tuo sorriso e in ogni boccone di frolla. Capita. Capita davvero. Che tutto prenda la direzione del vento, pure i capelli raccolti che scivolano fuori dalla coda. Sarà poi una combinazione vincente, come quella delle casseforti o delle lotterie, dove i numeri fanno la differenza e pure le magie.
Tu non ci credevi, che la bontà potesse conquistare così tanto. Pensavi che i cattivi fossero più forti e perfino più interessanti. Tesoro, non è vero che al massimo puoi regalare qualche attimo di commozione, sei una lezione vivente, un prezioso bouquet, un inno per tutti i giorni dell’anno. E, soprattutto, una di quelle realtà che assomigliano al sogno della felicità.

Anche con le ossa rotte sei bellissima.

sabato 21 dicembre 2013

Piccolo inno all'ingenuità

Non è che crede agli asini che volano ma ci arriva vicino. Si fida del prossimo, è uno spirito pulito e non sta vigile, con il fucile spianato, pronta a cogliere qualsiasi fruscio sospetto. L’ingenuità è aperta, mite, entusiasta. Ha tanto cuore e un sorriso genuino come un dolcetto fatto in casa dalle mani della mamma.
Qualche volta non le crediamo, tanto ci sembra leggera e pura. Talvolta ci fa addirittura arrabbiare perché la consideriamo un’immatura imprudenza. E spesso la condanniamo  per quanto ci appare sfrontatamente sciocca.
Ma il candore d’animo è una limpidezza così grande che non si può liquidare con sgarbo dalla cattedra dell’esperienza o del realismo. L’una e l’altro insegnano a essere meno ingenui perché conoscono il tradimento, la crudeltà, la scaltrezza, tutte orribili cose delle quali vorrebbero l’ingenuità non soffrisse. Il fatto è che nel momento stesso in cui la esortano alla diffidenza l’hanno già rattristata e avvilita.
Non c’è modo. Non c’è modo di non farla soffrire. E’ destino che provi enormi pene. E non ha senso scoraggiarla perché non si scotti, il bruciore le arriva con le stesse parole che la inducono a cautela.
Quella dell’ingenuità è una delle esistenze più tribolate che io sappia immaginare. Probabilmente dalla nascita alla morte non vede giorno senza batoste. Piccole, continue fitte al petto o devastanti macigni sulla testa. Eppure l’ingenuità è resistente e fedele. Lecca la ferita, chiude una porta e ne apre un’altra. Non fa mai pagare il conto del dolore a qualcuno che non è quello che glielo ha procurato.
Non sostengo che non impari, badate bene. Capisce eccome. Ma non oserebbe mai perdersi il bello che c’è altrove serrandosi in difesa, sospetto e timore. Il brutto forse si fregherebbe le mani dalla contentezza per averle rotto le gambe e l’ingenuità, che è ingenua ma non stupida, questa gioia non la concede. Vuole solo continuare a essere se stessa perché ha l’intelligente dignità delle più delicate, incantevoli grazie.

Merita un piccolo inno l’ingenuità, simpatica, audace, schietta. E molto, molto più sensibile di quanto troppe volte pensiamo sia.

giovedì 21 novembre 2013

Guard(o) come piove

Sotto la pioggia che non mi piace mai e dura da troppi giorni scelgo di sfidare, una volta
almeno una volta, l’umore. Che non vuol dire farmene semplicemente una ragione. Fosse solo questione di pazienza non ci sarebbe novità, quella ce la devo mettere per forza, piove a prescindere dalla mia voglia o dalla mia capacità di sopportarlo.
Provo proprio a immaginare il sole, tra una goccia e l’altra. Come una bambina che gioca con qualche presenza immaginaria.
In fondo, penso per stimolarmi, è un buon esercizio anche per la mia fantasia letteraria. Ecco, lo penso e già mi scappa un sorriso. L’ispirazione guidata sarà come viaggiare in auto con l’autista? Chi deciderà il tragitto? Tragitto però tradisce un punto di partenza che ha già in testa il punto di arrivo e allora, nel diluvio di pensieri e gocce, apro l’ombrello all’autista esploratore, quello che sa condurre il mezzo ma non conosce la strada così mi porterà qui e là, a casaccio.
Sulla via incontro bancarelle che sembrano serene pure sotto le nuvole e questo mi pare un buon principio, qualcosa che invoglia oltre ogni previsione, non solo del meteo. L’auto sulla quale viaggio può solo costeggiarle a una certa distanza e non è male, anzi, perché così non mi arrivano eventuali facce infreddolite o irritati schizzi di capelli fradici. Mi godo il bello che c’è, tutta la mercanzia colorata e l’ordine dei banchetti, uno dopo l’altro, davanti ai camioncini che fanno da magazzino taglie e misure. E pure l’arte delle tettoie improvvisate, le mani scaldate dai coni di caldarroste, le pozzanghere schivate da piedi lesti.
Mi godo il bello che c’è anche nel parco pieno di alberi piangenti con le panchine deserte. E in quelle atmosfere grigie dove il vezzo dei dettagli spicca tanto, davvero tanto. Ma d’un tratto l’auto che scivola sulla strada mi lancia in una corsa, mi fa perdere qualcosa, mi fa sentire una spettatrice al cinema. E io così una parte nel film non ce l’ho. Perché il sole che riesco a immaginare tra una goccia e l’altra mi scaldi davvero la pelle chiedo all’autista di fermarsi. Scendo e la pioggia me la prendo tutta.
Ci litigo, con l’acqua, con l’umore, con la fantasia che arranca.
Fino a bagnarmi di un’emozione che, forse, è solo resistenza. O, magari, libertà. O umanità. O quello che volete, improvvisate una presenza immaginaria come ho fatto io. Che il dolore quello vero è solo nella pioggia che uccide, come in tutto quello che fa un male che non puoi governare. Finché devo solo studiarmi una pista per distrarre la malinconia posso sicuramente vivere.

(Pagina di diario personale: sono meteoropatica-il dipinto è di Andre Kohn)

martedì 19 novembre 2013

Il ritardatario

C’è un ritardatario inclemente con il ritardo altrui.
E’ un tizio dall’orgoglio troppo arzillo per il quale la tranquillità è una sorta di diritto inviolabile. Se ne sta arcigno sulla sua pigrizia aspettando il rispetto di tutti.
E’ rassegnato ai suoi indugi e alle sue grettezze, a tratti par quasi ne vada addirittura fiero.  Ma guai se qualcuno osa indugi o grettezze con lui. Lì sfodera una ferocia da lupo affamato.
E’ riottoso a qualsiasi evoluzione altrui o, meglio, la giudica con disprezzo se non arreca a lui, magnanimamente, beneficio. Anzi, talvolta fa di più. La rifiuta categoricamente ma, straziandosi di invidia, cerca di farla a brandelli. Usa l’accetta. Invoca la morale, la giustizia divina e chissà quali altre sacre o profane ragioni per inficiarne la bellezza o la bontà.
E’ una faccia imbronciata, con gli occhi critici zeppi di rancore. Parco di sorrisi e per lo più pure di parole che vadano oltre i suoni del lamento. Vuole attenzioni, lui. Ma non ha delicatezza sufficiente per elargirne, mai. Sta impettito a braccia conserte e rimugina con rabbia sull’interesse che non riesce a suscitare. D’altra parte non è interessato a quello che potrebbe fare da solo e, tanto meno, curioso di sapere e capire cosa fanno gli altri per rendersi interessanti o quali siano le cose davvero interessanti da scoprire.

E’ un uomo inclemente con la vita stessa, ecco tutto. Che trova comodo, talvolta assai, giudicare inclemente la vita così da potersi disperare un po’, farsi compatire o avere almeno un posto nella storia, quello della desolazione.

giovedì 14 novembre 2013

Signor gatto

Il mio padrone è bello, dolce e geniale.
Mi ospita in casa sua con generoso spirito conviviale. Mi regala momenti impagabili. Mi
insegna cose che noi umani non comprenderemmo neanche nel corso di un paio di vite. Mi dispensa dalle coccole quando non è dell’umore adatto. Mi scalda d’inverno e sta alla larga d’estate, così da ricordarmi le stagioni senza bisogno di calendario.
In verità provvede anche a stropicciare quello che è stato stirato e a stirare ciò che giace stropicciato su una poltrona. Mi induce a tutte le buone norme di igiene e ordine: mettere i coperchi, non lasciare prodotti alimentari incustoditi, non abbandonare la tavola apparecchiata. E’ capace pure di trasmettermi il rispetto per il cibo: non si butta, si mangia.
E non è ancora tutto. Riesce sempre a sedersi, prima di me, nel mio posto preferito facendomi comprendere quanto è importante il tempismo, nella vita. Gioca con qualsiasi cosa, non bada al valore: vuole invitarmi a non disprezzare alcunché e, anzi, a gustarmi l’utilità di ogni oggetto. Mi fa comprendere in un balzo che ha notato le tende nuove. E si infila in qualsiasi borsa o scatola che varca in entrata la porta di casa: vuole dimostrarmi quanto conta l’attenzione. E’ interessato a ogni passo, a ogni voce, a ogni respiro, a ogni occasione: la vita è tutta lì, intuito, istinto, sfida e piacere.
Il mio padrone è molto pulito e fa la toletta completa un’infinità di volte al giorno. In compenso è così tollerante e buono da sopportare qualsiasi mia mancanza di profumo: pure una scarpa da ginnastica tolta dopo il sudore di un paio d’ore di palestra merita un’annusata.
Vuole acqua fresca, ciotole lavate almeno due volte al giorno e pappa dignitosa, possibilmente la stessa che vede nel mio piatto. Insomma adora condividere, anche se è cucina per gli umani, si adatta. Fa parte, è di tutta evidenza, della sua saggezza.
Avrei molto da aggiungere, se solo potessi picchiettare in pace sulla tastiera. Il mio padrone è più accorto di me in fatto di pause, sa che c’è un tempo per la scrittura e un tempo per il riposo. E sa anche che nel tempo del riposo posso felicemente dedicarmi alle sua fusa, accarezzargli il pelo, prendermi i suoi affettuosi morsetti e, magari, farmi impastare come se fossi pane in lavorazione.

Dunque accontentatevi di queste poche righe. L’elogio al signor gatto sarebbe molto più lungo, fosse per me. Ma la sua superiore sapienza si annoia un po’ con le sperticate lodi: roba superflua, è tutto nell’ordine naturale del mondo.

mercoledì 13 novembre 2013

Un figlio diventa padre

Un figlio dice al padre bisognoso: mi hai sempre deluso, arrangiati, io devo pensare alla mia vita. Il padre soffre e tace. Sa di averlo deluso ma non riesce a liberarsi di tutti gli errori che ha addosso e dell’orgoglio cocciuto che li ha causati.
Il tempo passa, il padre ha più bisogno, il figlio è più deluso. E la vita si fa avanti. Esorta il figlio insinuandosi nei pensieri di ogni giorno: lascia da parte il rancore e, soprattutto, l’arroganza. Se non è amore sarà pietà. Davvero riesci a non aiutarlo?
Il figlio fa il muso duro pure al suo cuore e non cede. Fino a quando saranno i figli, un giorno, a bussare alla sua coscienza: papà come sta il nonno?
Non lo so, risponde loro infastidito.
Stai tranquillo papà, noi sappiamo che a te non capiterà.
Cosa? Grida quasi il padre/figlio.
Di avere dei figli che non sanno come stai, risponde uno.
Se avrai bisogno, noi ci saremo, aggiunge l’altro.
Mi sono meritato il loro affetto e il loro rispetto, pensa l’uomo bruciando subito il soffio del rimorso.

I figli sorridono: è il tema che dobbiamo scrivere per domani, papà. E vogliamo prendere un buon voto. La maestra sarà felice della nostra bontà e della nostra piccola saggezza. Si è tanto prodigata a insegnarci a non essere egoisti, spietati, freddi, ostili. E a non disprezzare chi è in difficoltà. Sicuramente anche il nonno sarebbe fiero di noi.
Racconto realtà liberamente ispirato dalla storia di Paolo, l'uomo figlio e padre, oggi "ravveduto" e felice. Scritto per suo espresso desiderio.

lunedì 4 novembre 2013

La camicia degli uomini

Ci sono centimetri di materia che riescono a contenere colori e profumi in enorme quantità. Li noti subito, basta uno sguardo. E diventano punti fermi. Per tutta la vita.
Gli uomini stanno bene con la camicia a maniche lunghe arrotolate, altro che odiosi camiciotti a manica corta. Quel pezzo di stoffa in più che allunga o accorcia fa le stagioni o le circostanze. Ecco tutto, bastano un pezzo di stoffa e un gesto, dice la signora Lia.

Non c’è da pensarci su troppo. In una scelta è già tutto scritto. Chi vede deve solo leggere. Lo so, penserete che il rigore matematico della buona vecchia Lia non si possa applicare al costume, mutevole e zeppo di sfumature. Invece è solo un’allucinazione la pratica freschezza promessa dalla forbice, dunque chi ci vuole scivolare dentro più che abbracciare l’abito del tempo e del luogo ne diventa sciocco servitore. Ammettiamolo, è difficile contestare la signora Lia.

mercoledì 30 ottobre 2013

L'anima del paese storto

Ci sono luoghi che non stanno dritti. Anzi, luoghi che non conoscono le geometrie comuni. Luoghi che la natura e la vita hanno disegnato a mano libera.
Quando tutto và storto, sul foglio bianco dove cerchiamo con la penna la riga immaginaria, le prospettive degli stati d’animo lottano con le disposizioni fisiche.
E’ una lettera d’affari o una missiva d’amore e i pensieri ci comandano al rigore o alla dolcezza. Ma incliniamo e forziamo in su e in giù in preda all’impegno o alla sfida, con le lettere che barcollano ubriache e gli svolazzi che imperversano, casuali e impudenti.
Lungo il percorso le frasi sussultano, curvano o prendono la salita. Le ritrovi incollate o distanti, con le balze come le vecchie gonne o calate in un paio di scarpe troppo piccole o troppo grandi. Assolvono la funzione a modo loro, si presentano come preferiscono. Non fanno inchini a chi scrive e a chi legge. Se volete la pagina con le linee tracciate, dicono, accomodatevi altrove.
Quando tutto và storto incontri luoghi che non stanno dritti. Luoghi dove la rivoluzione dei profili ti fa toccare una bellezza sconosciuta e surreale. La bellezza imperfetta del foglio bianco, con le parole impastate di poesia della pietra e prosa del sorriso.
La dimensione dell’anima nelle forme fuori traiettoria ha sfumature di resistenza e di audacia che danzano sul filo, in bilico come le lettere ubriache. Sulle facce che aprono l’uscio di case, nelle voci che scendono dal balcone, nelle schiene che cercano il sollievo di una discesa e nella palla che corre tra i calci dei bambini.

Non fanno bella figura nelle cartoline, i luoghi che non stanno dritti. Loro sanno mostrarsi solo in carne e ossa. Le emozioni non le spediscono per posta, le conservano tutte per regalarle a chi ha l’inclinazione giusta per arrivarci. 

lunedì 21 ottobre 2013

Una piccola impresa meridionale: grazie, Rocco Papaleo

Una piccola impresa meridionale di e con Rocco Papaleo è un capolavoro
Lo è ben al di là della storia, delle ambientazioni, delle interpretazioni che già sono eccellenti. Lo è nel Faro e nel percorso. Lo è nello spirito. Lo è nel respiro infinito.
La trama non ve la racconto: è un film da vedere e sentire e poi rivedere e risentire e infine accogliere e amare.
Il prete “spretato”, la vecchia madre, la prostituta, i circensi muratori, le lesbiche, il cornuto, la bimba di genitori separati e tutto l’universo più o meno parallelo non sono solo uno spaccato umano e sociale della nostra realtà, sono un grandissimo trampolino di lancio per un cammino di luce e apertura. Per un autentico risveglio, direi.
Un risveglio che non può che accendersi con la sensibilità, la passione, l’autenticità degli istinti, degli aneliti e dei sentimenti più naturali.
Quella di Rocco Papaleo è una riflessione profonda. Tanto profonda che si può cogliere solo con la semplicità dei sensi liberi, fuori dalle logiche e dagli schemi con i quali si valuta “l’opera cinematografica”. E’ una strada, quella di Rocco Papaleo e di Una piccola impresa meridionale che, chi adora abbracciare qualche filosofia di pensiero, chiamerebbe scelta di vita. Io la trovo uno stato dell’animo. E la luce del faro è perfetta come guida, almeno per chi è pronto a imboccare la via illuminata.
La costruzione o la ricostruzione, in un’armonia che supera l’ordine architettonico.
“Non ci avrete!” grida giustamente il magnifico Jennifer, perché lui e gli altri non capitoleranno mai ai pregiudizi e alle convenzioni, alla miseria morale, alle catene e al vuoto implacabile. Loro sono altro, sono oltre. Loro sono la virtù della conoscenza, quella dei costumi buoni davvero. Levigati dal tempo, dall’onestà, dalla purezza.
Le scene, i dialoghi, le musiche sono ricche di questa intensità lieve ed essenziale perché in una Piccola impresa meridionale finalmente il bene e il male sono nella loro intima essenza non nel codice delle regole. Ci sono testa e cuore e non scatole ad incastro obbligato. C’è la verità, agli occhi di chi sa vedere e di chi ha la voglia e il coraggio di vivere la vita rispettandola. C’è l’unico legame degno di essere tenuto sempre saldo: quello della fratellanza.
Che poi il faro, come la mamma, possano contenere e comprendere tutto, è la chiave sottile di una dimensione metaforica incantevole.
La sceneggiatura acuta e brillante di R.Papaleo e Valter Lupo una regia delicata e originale calano i pensieri, le emozioni, i desideri e i passi in uno sviluppo denso di sfumature. Vivace, a tratti esilarante, sul filo dell’equilibrio e della caduta.
In questo è formidabile, Rocco Papaleo. Nell’ironia e nella leggerezza. Nel garbo asciutto e nell’intelligenza sublime che si mescolano fino a togliere il velo dalla commedia della vita per raccontare quello che siamo e potremmo (o dovremmo!) essere. Il cast è eccezionale: Rocco Papaleo, Riccardo Scamarcio, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum, Claudia Potenza, Giuliana Lojodice, Giovanni Esposito, Mela Esposito, Giampiero Schiano, tutti di una bravura assoluta.
Invece del piglio della lezione, Rocco Papaleo ha il talento del messaggio sommesso dunque la critica, sulla  sua “ribellione sottovoce”, non è mai troppo generosa si sa. Le doti intellettuali per un movimento più vigoroso e incisivo Papaleo le avrebbe tutte e forse qualcuno invocherebbe da lui un tono più alto, una bella voce incisiva e stentorea.
Ma la luce del faro, credetemi, arriva forte e piena. Nella vibrazione delle parole e dei risvolti, nei simboli limpidi, nell’entusiasmante disegno del futuro. Si tratta solo, davanti a un film ENORME, di sedersi da spettatori di buona volontà. Talvolta nelle piccole imprese risiedono i grandi valori…
E, comunque, Rocco Papaleo, amico mio carissimo, adesso il faro è lì, basta lasciarsi illuminare. E tu, ne sono certa, lo farai. La speranza è con noi, sempre.

mercoledì 16 ottobre 2013

Paese mio che stai sulla collina

E’ il paese dalle mani grandi e dagli sguardi bassi. Sul colle alto, sotto il cielo che scotta, tra le piante da frutta. Con la farina da impastare, la legna da tagliare, l’uva da vendemmiare. E i desideri che vivono oltre ogni vita. Sulle ciglia che scivolano nel sonno, sul lento risveglio di caffè bollente.
Ha tutte le case in fila, pronte ad affacciarsi sui passi della strada. Con la parola schietta che viaggia senza confezione, dalle teste ai cuori e dai cuori alle teste. Nella risata sommessa che si schiude di tanto in tanto, come un campanellino che trilla garbato. Dagli usci che si aprono e si chiudono in continuazione, fuori e dentro le ore.

E’ il paese appeso al muro come un quadro. Che sventola come una bandiera quando si alza il vento.
Che sarà...

martedì 15 ottobre 2013

La musica che gira intorno

Il vecchio vinile non ha più il giradischi. Ti guarda impolverato e graffiato e tu non hai il fegato di buttarlo. Pensi che tornerà, il giradischi. O che lo terrai lì, impolverato e graffiato, a farti compagnia. Come la memoria.
Che non hai neanche bisogno di sentirlo, la canzone l’hai scritta nel fiato e nelle tue orecchie non salta una nota.
Chissà cosa ci trovi, nel passato che non puoi seppellire. In quella forza che torna sempre a farti pensare e cantare, in quel suono che ha tutti i brividi che la tua pelle riconosce.
Chissà che emozioni hai conservato sulla copertina sgualcita dalle mani, dalle lacrime e dai sorrisi.
Chissà quante storie dietro un ritornello. Le tue e quelle che si sono mescolate alle tue, quando tutte le puntine facevano librare il ritmo nell’aria. Quando il tempo del cuore stava anche in quel rito, del giradischi e del vinile. Quando tutto intorno era diverso. O quando tu eri diverso.

Ne approfitto per ricordare La musica che gira intorno di Ivano Fossati.

sabato 5 ottobre 2013

Il pane e frittata di mia madre

Vengo dopo di lui, come se fosse il tg.
Con un’altra frittata e un’altra madre. Ma con il senso perfetto delle sensazioni.
Non quelle di casa e idillio, in stile Mulino Bianco. Quelle che sono spirito di qualcosa. Magari in profumi e sapori. Forse in atmosfere. Sicuramente in autentici orizzonti.
Non bastano le tracce dove stanno appiccicati i ricordi. Non ci vuole per forza l’olio che sfrigola in padella. Ci vuole il cuore complice. E la testa che mette i piedi al posto giusto. Il pane si “sponza” soprattutto di ricerche e scoperte. Altrimenti è una catena. E le catene, si sa, spezzano le ali.
Il pane e frittata di mia madre è buono se ti ha fatto crescere e, appunto, volare.
Se ti ha insegnato l’appetito e il piacere, che sono molto di più della fame e della sazietà.
Grazie all’amico Rocco Papaleo per l’ispirazione, che il pane e frittata di mia madre è suo.

(agosto 2013)

giovedì 3 ottobre 2013

L'ebbrezza dei tetti

Io ci sono stata, sui tetti. Tanti tetti, tante volte. Senza imbracature. In barba alla prudenza e a tutte le buone norme di sicurezza. Come sul fronte della roccia ferita che, a strapiombo, lacerava tutto. E adesso lo posso pure scrivere, il tempo si è portato via gli obblighi e le sanzioni. E mi ha lasciato viva e intera. Doveva andare così, il mio destino non prevedeva rovinassi dalle altezze.
Adesso penso diversamente a te. Che urlavi perché scendessi. Che tiravi un sospiro di sollievo quando mi rivedevi con i piedi saldi a terra. Che poi ci sorridevi, su quelle che erano le mie stravaganti audacie di passione e dovere. Perché le capivi, si le capivi, anche quando scuotevi la testa, mi supplicavi di stare attenta, mi dicevi che avevo un senso esasperato del servizio.
Se allora mi divertivi e mi commuovevi, collega per un drammatico caso, oggi mi dai la misura delle combinazioni. Se allora la tua stima e la tua fiducia mi arrivavano come un giudizio generoso delle difficili circostanze, oggi le sento come una traccia.
Grandi opere. Bastano due parole, corte e abusate, e mi vieni in mente tu. Ne sappiamo qualcosa, tu ed io. Di quelle vere. Che non pronunciavamo neanche, a testa bassa, con le lacrime agli occhi, alla vista che ci tagliava le gambe. Col fiato che il disastro ci aveva allenato.
Ecco perché ti arrendevi entusiasta. Ecco perché le capivi, la forza e le bizzarrie. Erano
impellenze, sarei caduta solo se non avessi dato tutta me stessa. E tu, che di calcoli te ne intendevi, mi hai allargato addosso uno sguardo illuminato da un sospiro: “I calcolatori non possono essere creativi. Per essere creativi occorre generare qualcosa, ma i calcolatori non generano nulla. Eseguono solo il programma” (Ada Byron).

Grazie ing., per i ricordi e per molto di più.

Portentosa lingua

La memoria srotolata come la lingua sul gelato che cola lungo il cono. Il gusto e l’effetto. Come edera arrampicata ad abbracciare il muro nel complice sussurro di foglie.
Non ci sono cocci ma tasselli da incastrare. Con la pazienza che arriva alle mani perché l’amore ti fa mettere cura. Scarti i baci per leggere il pensiero, quello che se è buono raddrizza qualsiasi giornata. E la lingua raccoglie ancora i piaceri, generosa te li fa scivolare dentro.
Valle a spiegare diversamente le emozioni, quelle che aprono i cassetti e saltano fuori. Quando meno te l’aspetti. Proprio perché non te l’aspetti, forse.

Le sensazioni che te ne fanno rimbalzare addosso altre mille. Le rime perfette in punta di penna senza che il pensiero le abbia cercate. Incanto della realtà, che la sa assai più lunga dei parti mentali.