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sabato 26 maggio 2018

E goditela...la vita!


E goditela, la vita! Tu che puoi, quando puoi, finché puoi.
Questo significa rispettare. Rispettare te stesso, la vita, gli altri. Gli altri che magari hanno proprio meno di te da godere.
Goditela, senza cercare chissà dove e chissà cosa. Brucia l’insoddisfazione una volta per tutte. E scendi, dall’arroganza di ignorare chiunque. Conti come tutti, né più né meno.
Abbi cura di ascoltare e vedere. Abbi cura di considerare il dolore e la fatica altrui. Abbi cura di mettere un po’ di delicatezza nei tuoi giorni.
Abbi cura di ricordare che tante volte ci sentiamo soli perché altrettante volte abbiamo lasciato sole altre persone.

sabato 5 dicembre 2015

Oltre l'ombelico

Sono proprio belle le persone che vanno oltre il loro ombelico.
Sbagliano, piangono, barcollano ma stanno dentro la vita e sanno cos’è. Ascoltano il suo battito invece di misurarsi il proprio.
Non hanno le giornate facili, c’è sempre un problema che stringe loro la gola. Hanno più sogni che possibilità di realizzarli.

Ma proprio per questo sono vere, si divertono con poco, ti abbracciano quando ti incontrano, sanno sorridere pure del loro affanno. 

giovedì 27 agosto 2015

Sculettare

Più o meno incedere con ondeggiamento delle anche. Un po’ moto naturale, un po’ civetteria, diranno gli uomini avvezzi a posare lo sguardo sulla donna che sculetta.
Questa è la natura. Già, quella del sedere che si mena, o è menato, a destra e a manca. Come quei viottoli di campagna nella luce alta del sole d’estate quando l’aria brilla e ogni gomito pare che oscilli come una canna al vento. Come quegli aquiloni incerti, che tremano appena nei primi metri di cielo immobile. Come i gatti che sembrano sempre in posa sinuosa per una fotografia. Come le nuvole, quando fanno i loro piccoli soffici viaggi.
La malia di quello che sculetta è un po’ come l’incanto del pendolo che ci fa spostare lo sguardo di qua e di là, che ci rimanda in mente chissà cosa di lieve, che mentre attira la nostra attenzione ci ha già inebriato.
E’ bello, quell’andamento un po’ così. Quello che ti lascia uno spiraglio di fantasia. Quello che vorresti fermare con le mani ridendo come i bambini euforici.

C’è chi impara l’arte, di sculettare. E chi si sveglia sculettando al mattino porgendo un sorriso al giorno. Come le tende dietro la finestra socchiusa in primavera. Un dipinto di vita.

giovedì 30 aprile 2015

La nobiltà del cameriere

C’era una volta l’impeccabile cameriere, gentleman del servizio, lavoratore elegante. Un provetto e fine conoscitore delle regole della tavola che porgeva ai commensali, magari su un vassoio d’argento, un concentrato di delizie in forma e sostanza. Danzava intorno alla tavola, scivolava lesto verso la cucina, rabboccava i bicchieri con garbo, taceva e sorrideva e parlava al momento e con il ritmo giusti. Maestro di cerimonia e di gentilezza, esperto di un galateo delle piccole e grandi cose che incantava.
Prezioso, scattante, adorabile. In quei tempi bui non poteva sedere al regale banchetto, vi partecipava con la presenza operosa e la gestione indispensabile. Avrebbe ben potuto però competere, con lor signori accomodati. Altroché. Da lui si sarebbe potuta apprendere l’arte, delle tovaglie, delle ceramiche e delle posate e anche quella del garbo, della discrezione, della cavalleria, della fierezza. Si, nel mestiere e nel portamento aveva tutta la raffinata dignità della propria bravura e del proprio stile. Chinava il capo, forse, ma di lui nessuno si sarebbe sognato di negare le virtù.

Venne l’ora delle illusioni, delle smanie e degli orgogli storti. Quella delle brutte maniere, dell’incostanza, della ribellione. Il momento del caos e delle false lusinghe, dei sogni sbagliati e delle realtà inesistenti. Lui prese a stufarsi, a fare andare le mani senza grazia, a muoversi come uno zombie dopo una sbronza, a odiare l’etichetta. Rinnegò l’amore, il talento, l’impegno, il dovere, il decoro, perfino il buon senso. Divenne goffo, maleducato, frettoloso, distratto, invadente, rabbioso, presuntuoso. E si sedette alla regale tavola ruttando, menando aria dal deretano, sputando avanzi nel piatto e frugandosi tra i denti a caccia di residui fastidiosi. A testa alta ma con il cervello vuoto e l’anima avvilita perché di lui più nessuno tesseva le lodi. Anzi. Spariti i commensali restò solo e inutile, attorcigliato al suo squallore.

venerdì 17 aprile 2015

Caro Diego Dalla Palma: la bellezza della ‘povertà’…

Diego Dalla Palma, ho letto quello che hai scritto sulla tua pagina facebook, la tua non quella di Diego Dalla Palma make up…
Di fronte all’ottusità di chi continua a vivere di sfarzi, di giornate effimere, di superficialità, di retorica e di egoismi si consuma il dramma di gente disperata, di bambini rapiti, massacrati e privati dei sogni. Così hai deciso di vendere i tuoi immobili, di vivere più modestamente con parte del ricavato e destinare l’altra a strutture o iniziative che aiutino orfani, giovani madri, vecchi in condizioni di bisogno, malati e profughi. Lanci l’appello affinché legali, commercialisti e associazioni ti supportino nell’intento.
Più che apprezzare capisco la volontà. In realtà non ho mai davvero compreso cosa se ne facciano i ricchi della ricchezza, i belli della bellezza, i fortunati della fortuna, se non trovano un po’ di equilibrio nell’armonia con il resto del mondo. Certo non è dato a pochi di sollevare le sorti dell’umanità intera ma sappiamo tutti, bene, che ci sono esistenze di sfrenato benessere che tengono le distanze da sacche enormi di sofferenza e indigenza e questo fa rabbrividire di orrore.
Il vero make up dovremmo farlo all’anima. Proprio così. Non so cosa ne penseranno le tue clienti e le estimatrici dei tanti prodotti, metodi, consigli estetici. Francamente me ne infischierei se non fosse che, forse, qualcuno già insinua che un buon proposito celi una qualche forma di promozione.
Potresti essere poco o troppo credibile, questo è il punto.
Esserlo poco tutto sommato potrebbe anche non nuocere ad alcuno e non nuocere te, se vai avanti con determinazione sulla tua strada. Esserlo troppo è più indigesto. Già. Fare atti di bella e, mi piacerebbe dire, naturale umanità sulla base di certe tue riflessioni si concilia con il culto dell’immagine?
Sai, a ridare valore alla vita, ai sentimenti, alla giustizia, allo spirito invece che al corpo, si finisce per dare un deciso colpo di spugna ai rossetti, agli smalti e agli ombretti.
Ma no, non è una battaglia fanatica. E’ un istinto. Semplice e liberatorio. Quanto più ci riconciliamo con il senso del nostro breve viaggio sulla terra tanto più ci disfiamo di ciò che è inutile e ingombrante. Quando impariamo a gioire d’altro non perdiamo un solo secondo a rimirarci allo specchio, caro Diego Dalla Palma. Ci prendiamo cura di noi in tutt’altra maniera, davvero.
E allora chissà. Chissà cosa succederà. A tutti quelli che seguono la tua pagina fb, a quelli cui la notizia rimbalzerà per altre vie, a quelli che ti identificano come ‘il profeta del make up made in Italy’, a quelli che acquistano i tuoi fantastici prodotti per capelli, viso, corpo.
Magari hai già messo in conto tutto. Tipo impennata o crollo di interesse, per esempio. Oppure come me stai a guardare, con curiosità, apprensione o speranza. Il tempo darà risposte, credo.

Intanto non posso che augurarmi un felice esito del tuo progetto. Di vita e di aiuto al prossimo. 

lunedì 6 aprile 2015

E' qui la festa

E’ qui la festa. Nel luogo esatto in cui non si celebra. Si, proprio dove non va in scena lo spettacolo. Nel divenire assorto in altro, nella trama dei respiri che pensano a persone, cose, fatti. Dove non c’è dolce e non c’è ballo. Dove già che vi sia pace e non guerra è gioia enorme.
L’ansia dell’evento è un fardello che non si addice a spalle deboli. E, d’altra parte, c’è un altrove che non può neanche degnare di uno sguardo la baldoria. Ha un altro passo o è attorcigliato su un tormento o non ha ali per volare e calici da alzare.
Non è sempre male, no. Talvolta è più autentico. Crudo, forse. Ma di quella crudezza che onora la realtà, non inventa illusioni, non maschera tristezze. Se ne sta a braccetto con la verità, quale che sia, comunque vada. In un prato immaginario di chissà quale primavera, sotto la coltre di neve in montagna o in una casetta di città col cielo grigio.
A Pasquetta si riflette su questo. Sul pic nic mancato. Che è un po’ come la vita. Una ciambella che non riesce sempre con il buco. Su quelli che non hanno in mente neanche bene cosa possa essere, un pic nic. Sulla beatitudine di chi non ha bisogno di ricorrenze, perché un sorriso in qualche modo lo tira fuori dal cassetto della buona volontà. Su tutto il bailamme che nasconde anche quello che dovrebbe stare solo e sempre alla luce del sole. Su quella forza cieca che si chiama speranza. E su quel tesoro che è l’umiltà di acconciarsi ai giorni così come vengono…

Un po’ necessità, un po’ virtù.

venerdì 27 marzo 2015

Pace tra gli ulivi

Ma che vuoi trovarci tra gli ulivi!?

La pace, la pace, voglio trovare tra gli ulivi.

Solo una frase fatta, dai, che sciocchezza. Guarda bene, orizzonte sgombro, alberi e ancora alberi. Nessuna insegna, zero case, sole a picco, terra scura, nulla di eccitante. Cosa pensi ci possa essere di davvero stupefacente?


Credi che la pace non lo sia?

mercoledì 25 marzo 2015

La buona volontà

Io ci penso eccome, alla buona volontà. Che qualche volta si sveglia con me al mattino e brilla tutto il giorno, altre volte lotta ma perde la battaglia perché io  remo contro, ribelle o annoiata, in certe albe uggiose non si fa trovare anche se mi sembra davvero di cercarla con tutta la passione del mondo.
Mi chiedo se e fino a che punto lei abbia una vita autonoma. Insomma chi ha in mano il telecomando, lei o io?
La ragione del pensiero inquieto è il senso. Della buona volontà, intendo. Nel mezzo di ansie e gioie quanto serve la buona volontà? Verrebbe pure la curiosità di sapere se c’è un premio, alla fine, per l’eventuale fedeltà. E le origini, ecco sulle origini non ci dormo la notte. E’ come la primogenitura contesa tra uovo e gallina:  chi è nato prima, la buona volontà o io?
Già, che se fossi nata con la buona volontà incorporata magari cedimenti non ne avrei mai. Se invece il destino è quello di pescarla ogni giorno va da se che qualche volta non abbocchi all’amo o io sbagli mare, lago, fiume.
Ma l’ingarbuglio sta proprio lì. Come accidenti mi muovo a onorarla se non è lei stessa a motivarmi? Niente da fare. Non ci sono scuse e neanche vie di fuga. L’imperativo non ammette deroghe e debolezze. Bisogna.
Se non mi ispira, non la vedo, non è pronta la devo tirar fuori dal cappello del prestigiatore. Che ci sia vento o pioggia. Che sia un piacere o un fardello. Che mi sorrida o mi segua col muso.
Altro che sano egoismo. Le contraddizioni in termini non sono ammesse.
D’altra parte la buona volontà almeno non porta sensi di colpa. E forse alle stelle interessa solo questo, così sono sempre in pace con la coscienza. Loro sono lì, ci sono, accidenti se ci sono. Se non guardo in su mica stanno a rimproverarsi perché brancolo nel buio, la voglia e la forza di alzare gli occhi ce la devo mettere io.

E in un lampo di buona volontà scopro che tutte le cose belle le regala lei. Non c’è altro da aggiungere. Quando la memoria proverà a svicolare rileggerò queste righe: scripta manent.

sabato 14 marzo 2015

Il ritratto: Antonio Mesisca, il social killer

E’ un assassino buono, Antonio Mesisca. Magicamente lascia in vita le sue vittime. Potrebbe però tenere corsi come social killer. Il suo mestiere è inchiodare allo schermo: chi conosce il mestiere vero può anche ridere ma, assicuro, la connessione è puramente casuale.
Mischia (minchia è solo per chi non conosce lui, il Mesisca), che personaggio.
Ci sa fare su facebook perché ha un cuore di panna acida –non inacidita, acida- capace di un’ironia dolce decisamente dirompente. Mica prende tutti per il naso, macché, spruzza indulgenza e umorismo in proporzioni perfette. Conosce i suoi polli, cioè conosce l’utente medio dei social e, of course, il costume, sa giocarci con sapiente arguzia, si tiene a debita distanza dall’uso sconsiderato del diario pubblico.
Già, la pagina del Mesisca è un bailamme di tiro al bersaglio e carezze, punti interrogativi ed esclamativi. Da buon osservatore della fauna internettara prende amabilmente di mira tutti, dalle gattare ai gustosi viziosi di ogni genere e tipo. Entra ovunque, nelle pieghe del supermercato, nell’intimità, nelle questioni sociali, con il dito morbido e sinuoso, quello che più che mettere all’indice (pur se di dito si tratta) blandisce, scherza, ammonisce col sorriso.
Lucido e sempre sul pezzo. Mischia, di notte immagino il Mesisca che si informa per non perdere un colpo. Mai banale ma sempre fresco e immediato.
Tastiera siluro, il social killer. Con la battuta sciolta e la relazione perennemente cordiale. Eh si, non si inalbera lui. Chi di social ferisce così bene sa incassare, altrettanto bene, qualsiasi colpo.
Che poi…chi dovrebbe infierire su un killer così garbatamente frizzante e graffiante?
E’ una boccata d’ossigeno! Puoi avere addosso un attacco di noia mortale o qualche angoscia ingombrante eppure con lui un mezzo ghigno ti esce. Finalmente, ti scappa di sussurrare con sollievo. Qualcuno che sa usarlo, facebook. Per studiare il piccolo grande mondo che gli ruota intorno, per distogliere lo sguardo dall’ombelico, per svagarsi e svagare, per sollecitare qualche pensiero fuori ordinanza, per non accumulare troppi vaffa inespressi.
Da scrittore votato alla chiara fama non è poco. Anzi. Il Mesisca esercita il diritto dovere di conoscere ‘lagggente’ fino in fondo, in quei meandri che uno dice figurati se scopri su facebook e invece è proprio lì che incontri se li sai leggere…tutto d’un fiato.  
Certo c’è stoffa da vendere, in intuizione. Perché bisogna cogliere tutto per far
partire il guizzo sagace. E il Mesisca è uno che fa meravigliosamente equilibrismo tra pieghe brutte e risvolti entusiasmanti, tra amarezza e allegria. Alla fine, diciamolo, il segreto di una vita sostenibile è nella leggerezza intelligente del Mesisca che, mischia, non si monterà la testa neanche questa volta…
Altro che onore al merito, mio caro, tu sei il mio antistress. Mi riconcili, non poco, con certe derive social: con te c’è lo sfizio del lato B. No, non è il culo dai, è solo il rovescio della medaglia, la risata che ci salva del delirio.

Mischia, mi tocca ringraziarti. Chapeau.
p.s. continua a seccare tutti, mi raccomando.

giovedì 11 settembre 2014

La poesia del dopo

La poesia del dopo ha le rime del sollievo. E’ leggera, ha il profumo della pace. In quello che temiamo e non capita, nella sciagura evitata ci sono tutte le melodie del mondo. I muscoli che si distendono, il sorriso che non finisce più di allargarsi, le mani che smettono di tormentarsi.
Che tra un verso e l’altro quasi dimentichi quello che hai sofferto, l’angoscia che mordeva, il cuore che saltava via. Ti tocchi e ci sei, intero. Proprio come quando guardi l’arcobaleno dopo il temporale e pensi che c’è sempre la luce dopo un tunnel.

Se mai resta lo specchio, a ricordarti che tutti i prima e i durante restano sulla pelle. Che l’anima ha proprio le stesse rughe. Che la vita non ti restituisce la serenità che hai perso. Ma a te basta, deve bastare, avere un’altra pagina davanti. Fuori dalla tortura. Anche solo per il tempo della speranza.

giovedì 28 agosto 2014

L'amico è

L’amico è, l’amico c’è.
Questo è tutto, in verità. Perché ti può pure prendere a schiaffi, se lo crede necessario, ma sta al tuo fianco. Come uno sposo o una sposa, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà. Non ci sono gioie o dolori che lo possano dissuadere. L’amico è, l’amico c’è.
Le altre storie, quelle che tu chiami amicizia, sono pagine d’agenda, che già il diario è troppo emotivo. Incontri, baldorie, feeling precari. Possono essere piacevoli, non vi è dubbio. E talvolta pure interessanti, che le umane conversazioni possono svelare sempre affascinanti dimensioni. Ma sono altro dall’assoluto. Non ne conoscono la profondità dell’ affetto e la straordinaria euforia della complicità.

Ecco, prendi nota. Se qualcuno entrerà nella tua vita come amico lo riconoscerai. Intanto puoi coltivare il desiderio di esserlo. Perché, sai, bisogna che tu faccia la tua parte.

martedì 26 agosto 2014

Con la diversità andateci piano

Evviva le differenze. Che non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, visto che siamo tutti unici. Eppure la premessa diventa necessaria. Come lo è ribadire la bellezza della libertà che, con il solo limite del rispetto di quella altrui, è ciò che ci fa esprimere l’immenso patrimonio che siamo e abbiamo.
Essere diversi da chi e cosa, dunque?
Dovremmo semplicemente rilassarci nelle nostre impronte esclusive. E, sia ben chiaro, riconoscere quelle altrui. Non è una gara, quella della ‘diversità’.
Che se non siete più adolescenti e andate ancora in giro dicendo che siete anticonformisti, pazzi e irriducibili avete problemi al posto di diversità.
Innanzi tutto la ‘pazzia’ è una cosa seria, molto seria. E voi dimostrate di essere idioti a proclamarvene affetti con tanta leggerezza e senza certificato medico. Quanto al resto lasciate che siano i vostri fatti, non le vostre parole, a dimostrarlo. Quello che si concede a un ragazzino o a una ragazzina, alla naturale ricerca di un’identità, a voi non spetta affatto. Anzi.
Desideriamo adulti quanto più possibile sereni e maturi non signore e signori smaniosi di apparire chissà chi e chissà cosa.
Non ci sono due originali, al massimo buone copie, somiglianze, punti di contatto. Quindi non vi dovrebbe essere affanno, nessuna sgomitata, niente panico da appiattimento. E, più di tutto, bisognerebbe che a muoversi, con grazia, fosse la nostra essenza a nudo, senza il fronzolo della spiegazione della propria identità straordinaria. Ciascuno è fuori dall’ordinario nella precisa misura delle proprie inimitabili caratteristiche. Punto. Non in virtù di ‘pazzie’, per favore.
In verità l’unica ‘pazzia’ è dirsi ‘pazzi’ quando non sappiamo cosa significa, quanto male può fare, quanto delicato possa essere…e, paradossalmente, quanto ordinari possa farci apparire. Già, cari ‘pazzi’ fasulli, a forza di sentirvi usare parole così a casaccio finite per diventare il peggior doppione della peggior specie di umano. Ovvero quello che si dipinge con i tratti di chi non vorrebbe mai conoscere, frequentare, aiutare, amare. Che, per intenderci, non è una persona eccezionale ma solo uno sciocco presuntuoso scarsamente dotato di umanità, sensibilità, senso della misura e della vita.
Ecco, diversi è bello, bellissimo, magnifico.
Fare i diversi è solo un esercizio di intollerabile vanità, stupidità, miseria morale.

Se ancora il concetto non fosse chiaro ci è dato riflettere su un <dettaglio>: per quanto ognuno di noi possa essere un tesoro nell’universo spazio-temporale è un invisibile puntino! 

mercoledì 20 agosto 2014

Certe nonne

dipinto di Antonio Libonati
Certe nonne sono vecchie e malate. Sono di altri tempi e di un’educazione che non pratica tanto le parole dell’affetto. Certe nonne non riempiono di baci i nipoti e non fanno proclami di dedizione. Perdono la memoria e comunque le date importanti le attraversano con una gioia intima, senza fuochi d’artificio.
Siedono in disparte e tengono i pensieri nel cuore.

Certe nonne svelano quello che sono davvero solo davanti al dolore. Lì non si tirano indietro. Lì non hanno più acciacchi. Lì conoscono l’amore. Le trovi pronte a risolvere, lenire, addolcire. Certe nonne danno tutto quello che hanno. Improvvisamente hanno pure le parole. Già, certe nonne sono così. Insostituibili. 

sabato 12 luglio 2014

Il vaso rotto

I giapponesi riparano il vaso rotto valorizzandone le crepe. Uniscono infatti i cocci con una resina mista a oro, argento o platino così da mettere in risalto i ‘punti di sutura’ e illuminare il vaso e il suo percorso. Già, il percorso. Quello della sua vita che, come quella degli uomini, conosce vicissitudini e sistemazioni.
La filosofia giapponese, al contrario della nostra che diffida degli incollaggi di equilibri spezzati, si affida alla natura degli eventi e alla buona volontà delle mani. Che è un po’ come ricordare sempre che ci vuole pazienza e amore per risollevare le sorti di qualcosa che cade e va in mille pezzi. E che bene e male fanno parte del ciclo, insieme. Forse il vaso sarà ancora più bello, dopo. Quando tornerà a splendere dimostrando che tutto si può superare.
Chissà. Chissà se un vaso, una cultura, un’idea possono esprimere il senso di una direzione di saggezza o di speranza. Chissà se possono racchiudere lo spirito positivo e gagliardo della resistenza e della lotta.
Certo quello che conserviamo custodisce qualcosa che altrimenti perderemmo. Un ricordo, una lezione, una commozione. Pure un dolore, è vero. Ma chi può negare che anche il dolore abbia la sua utilità nel nostro bagaglio emotivo?
Ci penso perché lo raccolgo come un segnale, l’ennesimo, al valore delle cose in termini di rispetto. Rispetto della nostra storia e della nostra vita. Di quel legame affettivo che allacciamo con gli attimi in cui le usiamo, le cose. In fondo è quello ad appartenerci, il nostro modo di prenderle, curarle, utilizzarle. Le impronte che lasciamo su di loro sono i nostri sogni, le nostre azioni, i nostri caratteri. Roba che non può andare cestinata per uno scivolone, una spaccatura e qualche scheggia.
E poi sono così affascinanti le cose usate, consumate e sbeccate dai nostri anni e dai nostri pensieri…Sono come le nostre rughe, inquietanti solo se non sappiamo sorriderci su.

Grazie a Monica Ravera per l’ispirazione.

sabato 28 giugno 2014

Passepartout

Apre porte e portoni. Consente l’accesso a quello che di bello e di brutto c’è al di là dell’uscio. E’ un codice che hai in dotazione per natura o impari a conoscere lungo le primavere della vita. Si chiama passepartout.
Più che magia nelle mani è fiuto dell’anima. Talvolta inquietante. Un pensiero da scacciare, una sensazione da scrollarsi di dosso. Altre incantevole. Un piacere che si fa brivido di attesa.

Già. Quando i sensori sono così brillanti da cogliere tutti i segnali del mondo provi esattamente quello che sarà. Intuisci chi c’è oltre qualsiasi serratura. Non serve varcare davvero la soglia, tutto è lì, nel passepartout. 

lunedì 16 giugno 2014

La storia di Hackiko

Una storia che tutti conoscono o dovrebbero conoscere. Una storia diventata il film delle emozioni e delle lacrime. Una storia di ‘grande spiritualità’, secondo l’attore Richard Gere che vi ha letto e magnificamente interpretato l’infinita connessione tra esseri viventi.
La storia di Hackiko non commuove solo perché è la più splendida celebrazione del rapporto tra un cane e un uomo. Sbalordisce perché ci consegna una dedizione e un affetto senza scadenza.
Penso spesso alla storia di Hackiko. Alle nostre ostinate precarietà. Alle nostre leggerezze colpevoli. Alle nostre povertà, o viltà, di spirito. Perché la lezione di Hackiko contiene le domande e le risposte. Soprattutto al nostro ‘vuoto’. A quello che colmiamo con momenti e cose, acchiappati alla rinfusa. A quello che stordiamo per non sentire. A quello che neghiamo per esorcizzare. A quello che malediciamo per fastidio e rabbia.
Davanti al ‘vuoto’ ogni reazione è umana. Ma, almeno talvolta, sarebbe altrettanto umana l’accettazione. La storia di Hackiko ci presenta proprio la pienezza del vuoto. Ovvero quello dal quale il più delle volte ci allontaniamo…
Hackiko attende il padrone morto per dieci lunghi anni. Non si ribella al vuoto e neanche si rassegna. Semplicemente lo vive. Lì. Dove sono stati insieme. Lì. Dove si sono lasciati. Lì. Dove, chissà, potrebbe continuare ad avvertirne il respiro.
Hackiko non vuole rinunciare alla pienezza che ha conosciuto. E solo nel vuoto sa di continuare a tenerla nel raggio del suo fiuto. Forse è proprio questo l’amore. Forse è proprio questo il senso della vita. Esserci fino in fondo. Anche quando fa male. Perché quello che siamo è anche in quello strazio.

E mi chiedo spesso se possa riuscire anche a me, anche agli uomini, avvertire più la pienezza che il vuoto. Chi non possiamo trattenere continua ad esistere nel nostro tormento o nelle gioie della memoria?    

martedì 27 maggio 2014

Cose da donne

Perché se ci prova è un porco. Se insiste chi si crede di essere e per chi ci ha preso. Se fa l’amico non siamo più seducenti. Se ci ignora è un cretino, per dirla gentilmente.
Non che le donne siano solo questo, fortunatamente. Ma, insomma, questo è un ritratto che difficilmente possiamo dire non ci riproduca in modo molto, molto, molto vicino alla realtà. Quasi che la femminilità passasse da quell’attimo. Dallo sguardo che si ferma, si gira e ci accompagna. Dall’invito, dalla proposta, dal complimento. E da una misura perfetta, che lusinghi ma rispetti.

Che poi sono un po’ frottole, ammettiamolo. Perché quello che ci piace può essere un porco presuntuoso amico cretino e quello che non ci garba non ne azzecca una neanche se è il migliore degli uomini.

sabato 24 maggio 2014

Felicità lampo

Anna ce la faceva. A maneggiare quella zip con rapida euforia.
Aveva il cuore tenero, i riflessi pronti, i sogni in mano. Spalancava gli occhi estasiati e saltellava di incontenibile eccitazione. Come avesse a portata di gioco la bambola dei suoi cinque anni, nel piatto la torta buona della nonna adorata, ai piedi le prime decollete con il tacco.
Non perdeva un colpo. E ci voleva proprio poco. Un soffio a sorpresa e il battito apriva la danza. Era una telefonata, una canzone, un film, un bacio, una promessa. E lei esplodeva in sorrisi e moine. Ricaricava le pile e via, verso l’emozione di turno.
Forse non erano tutte meraviglie ma la collezione di felicità brevi era comunque una risorsa di valore, un bene rifugio, un conforto tutt’altro che blando. Ne faceva tesoro. Annotava qualcosa sul diario, raccontava l’avventura alle amiche, si guardava allo specchio compiaciuta. Ne aveva fatta di strada, toccando e vedendo. Ne aveva conosciute di anime e sensazioni, correndo dietro le bizze dell’istinto.
Solo che a un tratto la felicità lampo ha preso a starle stretta, a farle male. Le è maturata in testa un’idea più bizzarra dei suoi guizzi: quella che potesse meritare un lungo, inebriante benessere. Una fatale lusinga, forse. O quella noia che arriva, che non fa più sopportare gli amori a termine, i momenti veloci, la notte dopo il giorno. O magari l’inganno biologico, quello che fa questione di età e a un certo punto del calendario insinua il tarlo della stabilità.
Stabilità, che già a pronunciarla la fa evaporare, la felicità.
Chissà poi cosa intendesse davvero con quel desiderio un po’ grande un po’ sfuggente. Che un lungo, inebriante benessere è come l’erba voglio che non c’è neanche nel giardino del re.

Adesso seduta al tavolino di un bar sorseggia un caffè come se la tazzina fosse senza fondo. Lenta e assorta. Non finisce mai. Forse assente a se stessa. O, almeno alla felicità. E i lampi nel cielo, quelli si, fanno quello che vogliono e stravolgono luci e ombre. 

venerdì 23 maggio 2014

Il ritratto: Edy De Lucia, magnifica Cenerentola

Edy è la moderna Cenerentola novarese. Una versione con molto appeal e altrettanta magia. La magia del lavoro e del buon umore, che a vederli coniugati rendono perfettamente l’idea della favola.
La regina della raccolta differenziata la trovate nel centro storico intenta a svolgere il servizio con zelo gentile e grande piacere. Una figura impareggiabile, Edy. Innanzi tutto per il sorriso. E poi, appunto, per quella dignità leggiadra e vivace del ruolo. Così rigorosa eppure così frizzante da essere una specie di piccola eroina quotidiana. Edy è come un’amica, la vicina di casa buona e generosa, il folletto della giungla monumentale. Lei ha cura, molta cura. Delle sue funzioni e di tutte quello che può fare per le sue strade, per la sua gente.
Un gioiellino di donna, Edy De Lucia. Mora graziosa sempre pronta a una parola di disponibilità. Dolce e grintosa insieme, come se la bacchetta magica avesse mescolato splendidamente le virtù. Ecco, la sua storia è in un’umanità vigorosa che conosce il dovere e la responsabilità quanto il gusto delle emozioni e delle relazioni.
Eppure Edy fa ‘solo’ quello che dovremmo fare tutti: spendersi, anima e corpo, per la vita. Esserci, insomma, con testa, mani e cuore. Ma la verità è che Edy De Lucia è un modello, un simbolo, un invito che posso solo sperare abbia forza contagiosa. Perché siamo nell’epoca nervosa, annoiata, triste, svogliata, disattenta. E essere e fare ‘solo’ quello che Edy dimostra è, almeno, da abbraccio e applauso.
La mia domenica è scandita dall’incontro con Edy, io a passeggio e lei all’opera. Ma ricordo anche quando l’appuntamento era di venerdì, entrambe affaccendate. Gli anni passano e Edy resta una garanzia. Per me, per i portici e il bellissimo intruglio di viuzze della vecchia Novara, per tutti quelli che hanno occhi per vedere e anima per cogliere.
Anche la sua pelle, come quella di tutti noi, conosce l’affanno e le pene. Ma lei non lascia che siano loro a vincere o a giustificare mancanze, pigrizie, miserie morali. Lei prova sempre, ostinatamente, a essere e a fare Edy De Lucia, magnifica Cenerentola. In qualche modo, ne sono certa, la vita la ripagherà. Intanto ‘celebrarla’ è il minimo che io possa fare. 
A Edy un ritratto così calza a pennello, per simpatia e entusiasmo. Gli stessi che trasmette lei. Chapeau, cara, sei una grande donna.

giovedì 31 ottobre 2013

Due vecchi sul muretto

Seduti sul muretto a secco, vecchi quanto basta per averlo visto ai tempi in cui non accennava neanche un piccolo cedimento. Una mano appoggiata al bastone, l'altra levata in aria per accompagnare le parole. Entrambi. Come se la posa fosse quella di un set cinematografico al ciak del regista. 
Solo i corpi sono diventati grandi diversamente, smilzo quello con la coppola scura, tarchiato quello con il cappello chiaro.
Sono gli stessi di ieri. Sono i due che ci saranno anche domani.

In un rito che non si consuma, si ripete. Fanno uso, probi, di quel muretto, di quel tempo, di quell’incontro.