Anna ce la faceva. A maneggiare quella zip con rapida euforia.
Aveva
il cuore tenero, i riflessi pronti, i sogni in mano. Spalancava gli occhi
estasiati e saltellava di incontenibile eccitazione. Come avesse a portata di
gioco la bambola dei suoi cinque anni, nel piatto la torta buona della nonna
adorata, ai piedi le prime decollete con il tacco.
Non
perdeva un colpo. E ci voleva proprio poco. Un soffio a sorpresa e il battito
apriva la danza. Era una telefonata, una canzone, un film, un bacio, una
promessa. E lei esplodeva in sorrisi e moine. Ricaricava le pile e via, verso l’emozione
di turno.
Forse
non erano tutte meraviglie ma la collezione di felicità brevi era comunque una
risorsa di valore, un bene rifugio, un conforto tutt’altro che blando. Ne faceva
tesoro. Annotava qualcosa sul diario, raccontava l’avventura alle amiche, si
guardava allo specchio compiaciuta. Ne aveva fatta di strada, toccando e
vedendo. Ne aveva conosciute di anime e sensazioni, correndo dietro le bizze
dell’istinto.
Solo
che a un tratto la felicità lampo ha preso a starle stretta, a farle male. Le è
maturata in testa un’idea più bizzarra dei suoi guizzi: quella che potesse
meritare un lungo, inebriante benessere. Una fatale lusinga, forse. O quella
noia che arriva, che non fa più sopportare gli amori a termine, i momenti
veloci, la notte dopo il giorno. O magari l’inganno biologico, quello che fa
questione di età e a un certo punto del calendario insinua il tarlo della
stabilità.
Stabilità,
che già a pronunciarla la fa evaporare, la felicità.
Chissà
poi cosa intendesse davvero con quel desiderio un po’ grande un po’ sfuggente. Che
un lungo, inebriante benessere è come l’erba voglio che non c’è neanche nel
giardino del re.
Adesso
seduta al tavolino di un bar sorseggia un caffè come se la tazzina fosse senza
fondo. Lenta e assorta. Non finisce mai. Forse assente a se stessa. O, almeno
alla felicità. E i lampi nel cielo, quelli si, fanno quello che vogliono e
stravolgono luci e ombre.
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