C’era
una volta l’impeccabile cameriere, gentleman del servizio, lavoratore elegante.
Un provetto e fine conoscitore delle regole della tavola che porgeva ai
commensali, magari su un vassoio d’argento, un concentrato di delizie in forma
e sostanza. Danzava intorno alla tavola, scivolava lesto verso la cucina,
rabboccava i bicchieri con garbo, taceva e sorrideva e parlava al momento e con
il ritmo giusti. Maestro di cerimonia e di gentilezza, esperto di un galateo delle
piccole e grandi cose che incantava.
Prezioso,
scattante, adorabile. In quei tempi bui non poteva sedere al regale banchetto,
vi partecipava con la presenza operosa e la gestione indispensabile. Avrebbe ben
potuto però competere, con lor signori accomodati. Altroché. Da lui si sarebbe
potuta apprendere l’arte, delle tovaglie, delle ceramiche e delle posate e
anche quella del garbo, della discrezione, della cavalleria, della fierezza. Si,
nel mestiere e nel portamento aveva tutta la raffinata dignità della propria
bravura e del proprio stile. Chinava il capo, forse, ma di lui nessuno si
sarebbe sognato di negare le virtù.
Venne
l’ora delle illusioni, delle smanie e degli orgogli storti. Quella delle brutte
maniere, dell’incostanza, della ribellione. Il momento del caos e delle false
lusinghe, dei sogni sbagliati e delle realtà inesistenti. Lui prese a stufarsi,
a fare andare le mani senza grazia, a muoversi come uno zombie dopo una
sbronza, a odiare l’etichetta. Rinnegò l’amore, il talento, l’impegno, il
dovere, il decoro, perfino il buon senso. Divenne goffo, maleducato,
frettoloso, distratto, invadente, rabbioso, presuntuoso. E si sedette alla
regale tavola ruttando, menando aria dal deretano, sputando avanzi nel piatto e
frugandosi tra i denti a caccia di residui fastidiosi. A testa alta ma con il
cervello vuoto e l’anima avvilita perché di lui più nessuno tesseva le lodi. Anzi.
Spariti i commensali restò solo e inutile, attorcigliato al suo squallore.
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