Cupo
cupo (o cupa cupa nelle varianti dialettali) corrisponde, se vogliamo trovare
un parente vagamente più noto, al putipù campano.
E’
uno strumento musicale, più o meno rudimentale, della tradizionale popolare
realizzato con un recipiente (spesso di terracotta o di latta) coperto da pelle
di capra o da stoffa e da una canna legata al centro. Il suono è prodotto dallo
sfregamento della canna che il suonatore esercita a mani nude e bagnate. I
gesti richiedono un’abilità che solo il costume dei luoghi elargisce. Ci
vogliono tecnica e sopportazione del dolore per suonare i cupi cupi, doti che i
suonatori acquisivano per amore e per rispetto di antichi riti di
comunicazione.
Musica
di tutti, musica di strada. E’ la musica semplice e improvvisata che evoca la ricerca
di espressioni emotive e di messaggio di ogni angolo del tempo e del mondo. La
più affascinante, per cammino e simbologia. E forse anche la più difficile,
così affidata a mezzi di fortuna e alla fatica delle mani.
Quella
dei cupi cupi è una musica oscura, grave e fremente che spande nell’aria un
richiamo primitivo. E’ la sapienza dei movimenti del suonatore a dare il ritmo
e a trasmettere l’intensità della melodia ma in fondo è la stessa conoscenza
antica delle occasioni a tradurre il significato e a depositarsi, chiara, sulla
pelle di chi ascolta.
Ero
curiosa, la prima volta. Ne avevo tanto sentire parlare del cupo cupo, occhi e
orecchie avevano bisogno di metterne a fuoco l’energia e l’effetto. Lo ricordo
ancora quel momento, in Basilicata. Un languore stupefatto che pulsava come
quel rimbombo.
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