Poi
è venuto il tempo dei grandi affari, delle illusioni, della pigrizia, della
smania.
Dove
è rimasta la terra sono nate distese monoculturali comode e redditizie per
ridurre rischio e fatica e vendere il raccolto prima ancora della semina. Tutto
in pasto all’industria che confeziona, surgela, inscatola e distribuisce nel
mondo. Con buona pace della qualità e del gusto, naturalmente. Produzione su
larga scala, si è cominciato a dire. Che coccolava il pensiero della miniera d’oro
e ci faceva sprofondare nel baratro dei cercatori falliti.
Il
contadino è diventato imprenditore nel modo peggiore possibile. Ha smesso di
rispettare la terra e ha cominciato a strizzarla per ricavare in fretta tanti
denari per investire in borsa. Ha smesso di amare l’aia e le galline e ha
stipato i polli in enormi allevamenti prigione perché sfornassero uova a
ripetizione. Ha smesso di andare al mercato a vendere la frutta di stagione di
qualche albero, molto meglio trasformare l’intero podere in frutteto
predestinato ai grandi stabilimenti che fanno tonnellate di marmellata.
Adesso
la crisi è peggio della iattura della cattiva annata, della siccità o del gelo,
tutte quelle avversità di natura che erano rovello per mio nonno.
Il
pesce grosso nei decenni ha divorato il piccolo: la terra non era più dei
contadini ma delle super aziende che dopo aver imposto la coltivazione hanno
pagato sempre meno i prodotti. E oggi, con i consumi ridotti e la debacle
generale del sistema, i pescecane non ritirano neanche più tutto ciò che
l’agricoltore produce.
Risaie
su risaie, per chilometri non intravedo altro, difficile perfino scorgere un
piccolo orto. E il prezzo del riso crolla. Ricordo che qualche anno chiedevo ai
risicoltori perché non diversificavano e non si rimettevano a pensare al
chilometro zero, ai bisogni locali, a un commercio più ristretto ma forse più
sostenibile…e mi rispondevano che ci volevano investimenti, competenze, risorse
umane. Accidenti, come avranno fatto allora mio nonno e i suoi coetanei, poveri
e con mezzi assai meno avanzati?
Di
questi tempi evito di addentrarmi sulle storture della globalizzazione, sul
tortuoso cammino delle merci e delle quote e delle logiche europee, ma è
evidente che è ora di pigiare il piede sul freno per poi ripartire con ben
altra prospettiva.
Più
che lungimiranza, sensibilità e intraprendenza temo però che sia richiesta
anche una qualche dose di fatica. Insomma, non sarà proprio questo il problema?
La
terra è bassa, qualcuno lo mormora, altri lo gridano proprio. Meglio una
onorevole laurea in disoccupazione, forse. O la chimera di una ricchezza che ci
ha accecato e ora ci presenta anche il salatissimo conto.
Io
francamente le mie braccia e la mia schiena le offrirei volentieri, alla terra.
Possibilmente però vorrei lavorare la terra di una volta, non gli sterminati
campi di soia alla moda. Considerando la mia passione per il latte potrei anche
imparare a mungere le mucche, forse troverei occupazione in un lampo. I
mungitori che conosco sono rigorosamente indiani e pakistani, loro non lo
considerano un mestiere inaccettabile come gli italiani, trattano bene le
bestie, potrebbero prendermi come apprendista.
Quando
la smetteremo di ragionare in termini di “crescita” impossibile e inutile e
inizieremo a pensare veramente a fare bene quello che serve?
Non
è una logica piccola quella locale, è semplicemente logica.
Il
business della ripresa è nell’economia reale.
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