Riempie
i tuoi occhi, l’uva spina. Come un affresco rosicchiato dal tempo il cespuglio appena
discosto dal muro di pietra fa capolino a pochi passi da te, in fondo allo
stretto budello che sbuca nello slargo di case basse ammassate ai piedi della
salita.
Nello
strambo cono d’ombra che investe i gradini verso l’uscio della tua “tana”, così
la chiami, ti siedi e la fissi, con lo sguardo che si fa fessura nello
stordimento. Pare cuocersi, l’uva spina, al sole alto che fa brillare il
pulviscolo sottile di quel groviglio di viuzze. Stringi tra le mani il bastone e
ci appoggi il mento, con la giacca grigia che ricorda quando la indossavi a
schiena dritta. E le ore scorrono uguali, per te e per l’uva spina. Fino a
quando, nel gioco naturale del buio e della luce, riconosci la sagoma riflessa
di un passo lento ma sicuro sotto la gonna che ondeggia piano. Ancora qualche
istante e Caterina sarà vicina all’uva spina.
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