Ero
atterrata in platea nel bel mezzo di un musical sconosciuto.
Suoni
che trasportavano allegrie e amarezze tamburellavano nelle mie orecchie e io mi
fermavo, in ascolto, cercando di captare la provenienza e le conseguenze. Perché
qualcosa accadeva, dopo. Qualcuno si muoveva, una voce si levava, una porta si
apriva.
Insomma
intuivo che erano richiami o messaggi e che arrivavano subito, forti e chiari,
a destinazione.
Fischi
e reazioni. Di questo si trattava. Di un linguaggio fatto più o meno di sibili
e gorgheggi declinati in varianti corte, lunghe, mosse o uggiose.
In
balia di quelle vibrazioni mi misi a indagare fra cinguettii e trilli, quella
comunicazione in musica più che un costume mi stuzzicò la misteriosa idea di un
codice. Talvolta dal balcone scorgevo a
fatica un’ombra, altre volte nulla più del budello che a destra si inerpicava
tra le pieghe dell’area spaccata dalla frana e dello scorcio della piazzetta
che a sinistra si inabissava fino a un altro groviglio di vicoli.
Ma
era questione di attimi. Qualcuno si affacciava dalla finestra oppure si
avviava in strada.
Nel
dedalo di vie, in quel viluppo acrobatico di case tra salite e discese, iniziai
a intuire che il fischio era una scorciatoia geniale e in qualche modo intima e
discreta. D’altra parte, in piena magia, ciascun timbro era riconosciuto senza
dubbi. Come fosse una voce, come se contenesse tutte le parole note, come se
lasciasse un’inconfondibile impronta. Una freccia che colpiva subito il
bersaglio, una spilla che in un volteggio rapido e essenziale si puntava sul
petto giusto.
Denso
e intenso come i loro cenni, che dicono sempre più di qualsiasi discorso.
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