La
violenza è spesso la malattia della debolezza. Dietro i muscoli e la mascella
serrata in un atroce ghigno si nascondono incapacità, fragilità, insicurezze.
Non
si può giustificare perché purtroppo genera sofferenza, fa danni, distrugge
esistenze. Ma si deve capire. Bisogna sapere e riflettere su quel terribile
disagio che fa esprimere con le mani o le armi.
E’
l’unico modo per non finire tutti potenzialmente vittime della malattia o di
ciò che essa causa agli altri. Non mi esprimo qui con le competenze di
criminologia, lo faccio da donna, da persona di questo tempo e di questo mondo.
Lo faccio con l’istinto. Quello che mi dice che si lacera facilmente un tessuto
che non è di buona qualità, che è liso o maltrattato. Quello che mi dice che la
corda tirata si può spezzare in un lampo. Quello che mi dice che il disastro
della comunicazione e delle relazioni non può che produrre tragedie.
Chi
usa la forza per imporsi o per spezzare la vita altrui non può mai ricevere la
nostra indulgenza e la nostra approvazione. Ma non può bastare la condanna. Bisogna
evitare quanto più è possibile che accada ancora, di nuovo, e poi un’altra
volta.
Occorre
una ‘cultura della non violenza’, innanzi tutto. Che vuol dire molto di più e
molto altro di una pena per chi uccide o tenta di farlo. Serve una di quelle
parole grosse, molto grosse. Qualcosa che assomigli alla serenità, ecco. Perché,
al di là delle condizioni individuali, quello che è saltato è il senso
collettivo dei valori, delle misure, delle prospettive. Soprattutto tra uomini
e donne. I punti di conflitto hanno superato quelli di armonia. Mancano equilibri
di riferimento. Ci sono troppe cause di rabbia e frustrazione.
Inutile
negare il baratro tra le due facce della mela e poi svegliarsi con il dito
puntato quando il bubbone esplode. Inutile fingere di non accorgersi che ci
siamo allontanati. Inutile arroccarsi sui diritti e sulle libertà quando questo
non cela che un fallimento che impoverisce tutto e tutti.
Se
c’è una cosa spaventosamente diffusa quella è l’infelicità. Quella della
solitudine. Quella della gabbia. Quella della frattura.
Teoricamente
saremmo nati per completarci, in amicizia, amore, condivisione. Ma la verità è
che ormai facciamo una fatica immane a trovare corrispondenze. Abbiamo paure,
pregiudizi, arroganze devastanti. Aspettiamo o pretendiamo di essere collocati
su un piedistallo ma non vi collochiamo alcuno. Manchiamo di rispetto ma lo
esigiamo. Abbiamo ‘maturato’ un egoismo atroce che sventoliamo come bandiera di
indipendenza. Siamo piccoli e stupidi. Diamo sempre, al massimo, ciò che
riceviamo. Mai più slanci e naturalezze, solo tattiche di difesa o di
opportunismo.
Ci
sentiamo moderni. Invece siamo miserabilmente in frantumi.
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