Non
avrebbe mai creduto potesse avere il fiato corto quel legame. Tutta quella
passione, tutta quella gelosia, tutti quei sospiri, tutta quella intimità di
battiti, mani, sguardi. Le scintille di attrazione e possesso sembravano fuochi
d’artificio destinati a non finire mai. E non solo. Quella complicità ardente
doveva essere una chiave, il segnale, il sigillo di un sentimento enorme e
assoluto.
Lì
dove l’afflato dei corpi sprigiona calore e piacere, lì dove la complicità dei
sensi mescola gli odori e i brividi, lì dove ogni attimo sembra assorbire tutto
il tempo e lo spazio del mondo lei aveva creduto albergasse l’amore. L’amore.
Quello dell’anima, della vita, dei sogni, del pianto, del dolore, della fatica.
Quello del bene e del male, della notte e del giorno, del rumore e del
silenzio. Al di là della poesia, dell’euforia, della dolcezza. L’amore. Quello
che accompagna nel sonno e torna alla veglia puntuale ogni mattina. Qualsiasi
cosa accada. Oltre ogni bacio, oltre ogni sussurro, oltre ogni carezza. L’amore
nella paura e nell’angoscia. L’amore nella confusione e nel tormento.
Ma
non è una decisione, l’amore.
E
non è la scossa delle eccitazioni.
Lei
ha creduto, ha sperato. Forse ha voluto immaginarselo così l’amore. Avvolgente
e stuzzicante. Frizzante, intrigante, coinvolgente. Sempre incandescente. Lei
ha amato un’idea, forse. E ha cercato attenzioni, parole che avessero il suono
della voluttà, prove di una smania sempre accesa e intensa. Conferme, ecco,
conferme delle aspettative.
Gioco.
Pretesa. Bisogno. Con dentro le insicurezze, l’egocentrismo, l’emotività
fanciulla. Un terribile concentrato di slancio e illusione. Una tragicomica
avventura dell’inganno. E una cocciuta crociata. Roba da personalità gonfia,
come direbbe la signora Lia. Ha delle ragioni, l’amica Lia. Ma nelle
personalità gonfie talvolta si annidano voragini affettive, superficialità
pericolose, contorti percorsi di spirito.
Non
solo colpe e arroganze, facili esaltazioni e amor proprio in fibrillazione
perenne. Anche una semplicità spinosa, una sorta di irrequieta necessità di
piccolissime ma incessanti manifestazioni di consenso, di gradimento, di lode.
Idealizzare, sublimare. Insomma, si, questo attendeva. Un processo di totale
dedizione e venerazione.
Ma
un compagno che le è accanto soprattutto con il corpo, che ha scelto per
quelle emozioni forti, che ha voluto sua vittima e suo carnefice nella
delizia del groviglio a due piazze, è riuscito a vederla solo come una donna, un’amante, l’altra metà della
partita. Niente di così straordinariamente profondo da renderla insostituibile.
Adesso
l’ingranaggio inceppato porta i dubbi, i rimorsi, i rimpianti, la rabbia. E
traccia la ferita sciocca dell’orgoglio. Così brusca la scoperta da irrigidirle
gli abbracci. Come se non fosse più tanto meravigliosa quell’intesa
travolgente. Come se adesso fosse una violenza l’impellenza con la quale lui
vuole continuare il divertimento antico. Come se fosse giunta l’ora di
presentargli il conto, di chiedere di più, di urlare che lei è altro
da quella bambola che stropicciava e si faceva stropicciare.
Troppo
tardi, forse. E ci vuole il delicato pudore della verità. Bisogna chinare il
capo, allontanarsi senza strepitare, volgere a quel che è stato un sorriso di
chiusura, elegante e sereno. Perché non è stata preda della sua ferocia ma di
un delirio. Suo o di entrambi, questo lo scriveranno domani nei loro
ricordi.
Certo
è curioso che su questo filo del sesso appagante, dell’estasi che sembrava
nutrirli ad ogni sinuosa moina lei abbia dato un fatale, fermo colpo di
forbice. Lui è sgomento. Troppe volte era bastato rinnovare una lusinga per
conquistare i tuoi gemiti. Ma io la capisco, credo. Sente che è al
capolinea, sono al capolinea. Lei e le sue frenetiche attese di amore.
Mi
resta la speranza che lei possa non ingarbugliare più i pensieri nella
spasmodica urgenza di essere messa su qualche piedistallo.
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