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giovedì 30 gennaio 2014

Poesia

Lei non si infilava mai nei versi. Come se fossero cose sacre per menti sapienti non osava neanche sfiorarli con il desiderio. Li leggeva incantata e non credeva avrebbe potuto riprodurlo, l’incanto, poggiando le parole nel ritmo di una poesia. Timore, rispetto, amore. E quella vaga sensazione di essere sempre fuori posto nelle cose grandi.
Come se il vuoto dei suoi languori emotivi invece non avesse tutti i profumi di una lirica di dolcezza graffiata. Come se certe sue frasi non avessero dentro tutte le arie e le pause di un respiro metrico. Come se non avesse sempre l’occhio che inquadra quello che ha malinconie o allegrie in attesa di un’ode nuova.
Fino a quel giorno, sulla riva di un fiume che conosceva meglio di qualsiasi ansia o sogno.
Seduta, con la schiena appoggiata al solito albero e le gambe lasciate andare, morbide e lunghe, nell’erba. I versi le sono arrivati sulle labbra come usciti dalla memoria e recitati in un sussurro. Non aveva neppure un taccuino per scriverli. E d’altra parte non sarebbe servito. Non sarebbero sfuggiti al suo cuore, troppa emozione e troppa gioia in quella libertà per perderne le tracce.
<Finalmente!>
La voce alle sue spalle la sorprese a ridere e piangere insieme. Non le era arrivato all’orecchio il rumore dei passi, certa della sua solitudine stava godendo con tutti i sensi, leggera come mai nella sua vita.

Non si voltò, attese che lui le sedesse accanto poi l’abbracciò, scossa dai brividi più belli della sua poesia.
(Giovanni Boldini, profilo di una giovane donna)

lunedì 27 gennaio 2014

Buchenwald

Lui tornò, da Buchenwald. Anzi, sarebbe giusto dire riuscì a scappare, da Buchenwald.
Visse ancora qualche decennio ma non riuscì mai a rientrare nel battito dei suoi giorni, nel respiro della salvezza. E neanche a parlare di quei terribili mesi.

Questa è la memoria. Qualcosa che davvero non si può cancellare.

sabato 25 gennaio 2014

Togliere il surplus

Bisognerebbe smettere di tacere solo quando abbiamo davvero qualcosa da dire. O da scrivere. L’unico rischio è un silenzio assordante…

Almeno con me stessa ho potuto raggiungere un compromesso che ha l’aria di essere dignitoso: dire o scrivere poco. In effetti era un vecchio desiderio che ora può essere accontentato. Rientra nell’opera di denudamento, fino all’essenziale. E già mi sento più leggera.
(dipinto di Jean Jacques Henner)

mercoledì 22 gennaio 2014

Il capitale umano

E’ l’ultimo film di Paolo Virzì. Di un realismo dirompente. Con un cast che nell’interpretazione magistrale gela il sangue. Più che alzare il velo sulla cinica e cruda realtà lo squarcia, con una storia “normale”, di feroce attualità.
I poveri valgono meno dei ricchi, il destino atroce è in agguato per i deboli e gli indifesi, la tenuta morale di tutti è così labile da crollare al primo scossone. Il bagaglio di egoismo e avidità corrompe tutto e tutti e finisce per tradire pure i sentimenti.
Con Il capitale umano la serata al cinema inchioda alla consapevolezza rabbiosa, triste, dolorosa di una deviazione inquietante, così subdola e forte da risucchiare la società intera. Quello che ci presenta è il nostro impietoso Paese, la nostra cultura depravata, la nostra umanità slabbrata e svilita.
L’indagine emotiva sui protagonisti che Paolo Virzì sa condurre rivela proprio l’abisso. Il nucleo marcio contamina qualsiasi dolcezza o resistenza, travolge i sogni, violenta la speranza. D’altra parte la brama di agiatezza si confonde con il legame familiare, la protezione dei figli, quella sorta di giustificazione all’orrore del singolo che scarica la responsabilità sulla collettività. E’ la nostra quotidianità: pur svuotando di senso la vita stessa non osiamo, non vogliamo, non possiamo reagire al furore di una sconvolgente pochezza.
Con fatica Serena e Luca riusciranno a stare fuori dal tunnel, grazie a Roberta la psicologa ma la loro sarà appunto la strada più dura. Tra splendore e miseria gli altri, anche i più esitanti o i più “ingenui”, alla fine non hanno dubbi. Si adeguano, con buona pace della percezione chiara dell’ingiustizia e della bruttura. Nessuno riesce a sottrarsi a un posto al sole, alla lusinga del lusso, alla tranquillità della consuetudine.
Ho trovato il film impeccabile anche se, personalmente, preferisco gli approcci più leggeri. Non voglio mettere la polvere sotto il tappeto e tanto meno chiudere gli occhi davanti alla deriva ma vorrei che gli esempi positivi, per quanto certamente meno potenti e numerosi, trovassero qualche forma di riscatto, almeno al cinema. Non per il lieto filo mieloso che metta a tacere lo sconcerto della verità piantata come un pugno nello stomaco ma per cercare un po’ di sano orientamento alla “vittoria dei migliori”.
Arrendersi ai numeri del finale de Il capitale umano è quasi insopportabile.

Comunque ottimi Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giovanni Anzaldo, Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli, Gigio Alberti.

lunedì 20 gennaio 2014

Il grande Gatsby

Infine l’ho riletto, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Qualche volta le letture di gioventù ritornano, per varie ragioni. In questo caso più di tutto ha potuto la spinta a rimettere i sensi in gioco nella miseria del Grande Sogno.
Sullo sfondo degli anni 20 americani con la crescita economica, i party, il proibizionismo e il conseguente contrabbando, la frenesia e la frivolezza collettive quello di Fitzgerald è il romanzo che più che il grande sogno americano ne narra la fragilità e l’acuta parabola discendente. Con una prosa da avvincente letteratura si destreggia tra amarezza, satira, realismo, saggezza.
La depravazione morale di una ricchezza svincolata dal pudore e dal valore dei sentimenti è tanto più devastante quanto più si confonde con le storie di uomini e donne impregnati di effimera, inquietante apparenza. Storie che sprofondano nella superficialità, si stordiscono nel lusso, si aggrappano alle cose. Storie che riducono la vita a una manciata di ebbrezze, a sciocche esibizioni, a disperati inseguimenti di un fasullo benessere.  
Il grande Gatsby mette impietosamente a nudo lo squallore delle debolezze e la povertà intellettuale, emotiva, affettiva. Lo fa in una trama densa, a tratti quasi esasperata, cucita addosso al tempo, ai personaggi, alla vacuità delle brame e delle ossessioni. Ma anche con il ritratto intenso e struggente di un sogno amoroso che sembra l’unico capace di scalfire la disastrosa follia di una vita inutile.
Jay Gatsby è fuori dalle righe, in tutto. La sua sfacciata agiatezza ha dubbie o riprovevoli provenienze ma per quanto su questo l’intera West Egg (Long Island, New York) si agiti in congetture e giudizi la sua spettacolare villa è meta perenne di veri e propri pellegrinaggi, gare di presenza e di esibizione. La verità è proprio in quella oscena farsa sociale. Mentre Gatsby è animato dal desiderio di riconquistare Daisy, la donna che non aveva potuto sposare da povero e che è decisamente attratta solo dai soldi, tutte le figure che ruotano intorno a lui sono prive di ideali, decenza spirituale e dignità. Chi vorrebbe condannarlo è in realtà un’accozzaglia di spregevoli opportunisti svuotati da qualsiasi umano rigore e bellezza esistenziale che preferisce giovarsi della sua casa, delle sue feste, della sua stravaganza.
Nessuno, neanche lontanamente, percepisce lo spessore e lo strazio di Gatsby. Salvo Nick Carraway, l’unico che oltre a comprenderlo imparerà a rispettarlo.
Nonostante il potere economico Daisy non se la sentirà di lasciare il rozzo ma agiato marito per una persona così diversa, romantica, profonda. Gatsby troverà la morte per mano di Wilson e di un tragico “equivoco” ma, tutto sommato, era già morto prima o sarebbe morto comunque con il sogno tradito e infranto. Gli sarà accanto solo Nick che, proprio davanti alla triste evidenza del fallimento umano di quella società malata, dopo averlo sepolto lascerà  West Egg e tornerà nel Mid West.
Un libro notevole, per tessuto e respiro. Un libro di straordinaria intensità e di impeccabile “tecnica”. Le esemplari caratterizzazioni rendono in modo pieno atmosfere, brutture, degenerazioni.

Per me resta il libro di Jay Gatsby e di Daisy nonché di Nick Carraway, la magnifica voce narrante. Valido per l’epoca dell’illusione e dello sgretolamento del Grande Sogno americano e attualissimo oggi dall’altra parte dell’oceano. Il consumismo, i lustrini e le smanie ostinate del nulla continuano a lacerare la cultura e il pensiero, a mortificare la spiritualità, a generare frustrazioni insulse e inquietanti.

sabato 18 gennaio 2014

Una storia d'amore

Siediti. Lo disse con tono quieto ma fermo.
E lei obbedì, poggiando le mani in grembo e abbassando lo sguardo.
Era quasi buffa. Sembrava una bambina in attesa di un castigo che, con l’aria pentita e remissiva, spera di attenuare l’ira dell’adulto arrabbiato. Ma lei non era più una bambina. Anzi. E lui era l’uomo che le era accanto da decenni.
Usava quel tono grave poche volte ma quello era un periodo duro, le brutte notizie parevano non avere alcun ritegno, piovevano come temporali estivi, improvvise e impietose.
Si sedette anche lui e lei sbirciando appena intravide un piccolo sorriso. Forse stava cercando un modo delicato per presentare il nuovo schiaffo della vita.
Non sono bravo con le parole dell’amore, lo sai. Non lo sono stato neanche al mare 30 anni fa quando ti ho visto per la prima volta e per paura di non rivederti più ho tirato fuori un’impertinenza che non credevo neanche mi appartenesse. Per fortuna tu ci hai visto un lato comico nella mia invadenza pasticciona e, da allora, mi accompagni con una grazia che non finisce di commuovermi.
Lei rise appena, arrossì e lo guardò negli occhi prendendogli le mani con le sue.
Cosa devi dirmi?
Che 30 anni d’amore sono tanti. So che non ti sono mai piaciuti gli anniversari, hai sempre detto che i sentimenti si celebrano ogni giorno e che porta male annotare una data e osservarne scioccamente il rito.  Ma questa volta desidero festeggiarli. Puoi comprendermi?
A lei non riuscì di rispondere. Mai un numero le era parso un pensiero così felice e luminoso. Pronunciò il si con gli occhi che la sapevano più lunga di tutte le parole dell’amore e lui l’abbracciò forte forte.
Stai diventando romantico, vecchio mio, disse lei riprendendosi un po’. E non smetti mai di stupirmi.
Grazie.
Oh non ringraziarmi, questo numero eccita anche me, non voglio accontentarti, mi piace l’idea di festeggiare, ora.

Non ti ringraziavo per questo. E’ che tu sai sempre prendere quello che sono.

mercoledì 8 gennaio 2014

Il frutto proibito

Più del frutto, proibito era l’albero. Un albicocco piuttosto alto, a ridosso del muro che cinta una parte del giardino che, oltre il cortile, segue il perimetro della casa.
L’arrampicata era piuttosto facile, complici uno zoccolo di cemento e un tronco che accoglieva i primi rami a portata raggiungibile. Poi le fronde alte in parte appoggiate al muro erano perfette per accogliere l’idea di capanna che da bambina mi piaceva tanto. Piaceva anche agli altri bambini della casa, una costruzione grande ma non troppo costruita in epoca fascista con appartamenti spaziosi e luminosi, di quelli che non hanno i soffitti a premerti sulla testa e ti fanno camminare su splendidi mosaici di marmo.
Non era vietato servirsi dei frutti, quelli erano nostri. Era proibita la scalata, in teoria, ritenuta pericolosa per i bambini, tanto più che al di là della cinta c’era un’operosa falegnameria con connesse attrezzature e probabilità di incidenti. Ma era uno dei giochi preferiti e di fatto era diventato difficile impedircelo. Bastava che gli adulti fossero distanti o affaccendati in casa e in quattro rapide mosse l’albicocco era la capanna delle meraviglie. Il muro, piuttosto largo, era una felicissima sistemazione una volta giunti lassù e così potevamo intrattenerci qualche ora a un palmo dal cielo e alla frescura della cima.
Nel tempo ho avuto più volte l’impressione che qualche occhio sbirciasse da dietro le finestre ma non osasse rimproverarci o intimarci la discesa. Insomma il divieto era diventato solo un invito alla prudenza. Probabilmente anche i grandi ci avrebbero seguito volentieri in quel sogno di azzardo e rifugio e dunque avevano deposto le armi del severo controllo e del castigo.
Sull’albero c’erano più emozioni che frutti già a pochi giorni dall’inizio della stagione delle albicocche perché, ovviamente, la nostra merenda era abbondante e impoveriva i rami in un baleno. Secondo me era contento anche lui di tutti quei nipoti affettuosi e grati. Era più o meno la sua vita quella. E anche quando si spogliava un po’ e il freddo ci faceva sostare meno a giocare fuori un giro da lui lo facevamo sempre, a tenergli compagnia e, chissà, forse pure a tenercelo buono. Che i bambini sono spontanei e ingenui ma non difettano di una certa dose di arguzia, chiamiamola così.

E’ tutto ancora lì. La casa e il giardino sono rimasti quelli dell’infanzia. Mancano i bambini o, quando ci sono, non conoscono il piacere di quell’improvvisazione tra natura e fantasia. Probabilmente un albero di albicocche campeggerà al più in qualche loro  programma tv o su qualche applicazione web o sul display del telefonino.

sabato 4 gennaio 2014

I gatti di Nizamuddin

Nilanjana Roy ci teletrasporta, un po’ come Mara la piccola gatta Emittente, in un mondo apparentemente parallelo. Quello dei felini, soprattutto. Ma anche dei cani, dei topi, delle manguste, delle tigri, degli uccelli.
La verità però è che la storia dei gatti di Nizamuddin è forse una grande allegoria.
La trama è avvincente e gradevole e, sicuramente, lo zampino dei gatti è fondamentale. Chi li conosce e li ama non può che comprendere al volo quanta seduzione possano esercitare sul lettore. Lo sviluppo è complesso, a tratti indulge con lentezza su minuziose descrizioni di contesto ma, il più delle volte, si infila nei meandri dei pensieri per delineare i profili con grande cura. E in questo, come nei risvolti del racconto e delle relazioni tra i personaggi, è molto forte e appassionante il richiamo a sentimenti e aspetti molti “umani”.
Le avventure dei gatti randagi, la vita alternativa dei gatti dei Piedoni (quelli domestici) e il terribile scontro con i Ferini, non sono tanto diverse dalle dinamiche del cammino degli uomini. E Nilanjana Roy racconta una storia universale che attraversa la natura, quella degli istinti, e incontra le dimensioni della vita, dell’amicizia, delle emozioni, delle paure. Fantasia e realtà sembrano mescolarsi in armonia perfetta. Nel dolore come nella gioia. Si sorride, con la Roy. Ma si riflette e ci si commuove, non poco.
Miu Miu, Beraal, Katar, Mancino, Hulo e Mara assomigliano molto a noi. Anzi, forse ci consegnano qualche lezione. Peraltro nello stile denso della Roy il ritmo è proprio quello ideale per apprendere perché arriva un poco alla volta, sbuca fuori dalle pieghe, fa le fusa e si manifesta con miagolii inequivocabili.

Un bel libro. Scoprirete quante domande possono farsi i gatti e, soprattutto, quante risposte sanno darsi. Saggezza e dolcezza.

giovedì 2 gennaio 2014

Rocco Papaleo, un Boss in salotto

E’ uscito ieri ‘Un boss in salotto’, atteso film di Luca Miniero con Paola Cortellesi, Rocco Papaleo, Luca Argentero, Angela Finocchiaro, Ale e Franz.
Ovviamente il botto di Capodanno l’ho fatto in sala, con l’amico Rocco Papaleo e tutto il bravissimo cast. La commedia di Miniero è di quelle sapientemente comiche, leggere quanto basta per far assorbire piacevolmente uno spessore piuttosto inquietante.
Bel film perché ha gli attori giusti in una storia importante gestita con un ritmo avvincente. Risate, emozioni, riflessioni: tre ingredienti che fanno buon cinema.
La camorra, sullo sfondo, è ovviamente uno dei temi di attualità, soprattutto nei risvolti economici e sociali e nell’intreccio con le difficoltà finanziarie del Nord Italia.
Il terreno fertile di Un boss in salotto poi è soprattutto quello delle connessioni, tra disagio, valori umani e familiari, ricchezza, deriva culturale. La “rispettabilità”, grande dilemma della nostra epoca, è tutta nel terribile equivoco tra valori e potere. Sicuramente nel nostro Paese essere un Boss ha aperto e forse ancora apre più porte dell’amore, dell’onestà, della verità. Per fortuna il finale allarga il cuore ai sentimenti e alla forza dei legami autentici.
“Volevo appartenere a qualcosa”. Ecco, ciascuno cerca un riscatto alla fatica e al dolore della solitudine o della debolezza aggrappandosi a qualcosa: la carriera e le patinate apparenze dell’”alta società” o quelle della criminalità che poi sono la stessa spirale di fallimento…Ma i nodi si possono sciogliere come neve al sole quando si smaschera l’orrore celato dietro le esistenze invidiate e inseguite. E a farlo, in Un boss in salotto, è proprio la sensibilità e la schiettezza del finto boss. Quello che riesce a riunire speranze, affetti, senso delle cose.
Il nord e il sud, la superficialità culturale di un’epoca durata anche troppo, la fragilità e le paure dei percorsi umani, la bolla di sapone del benessere. Questo e una bella dose di risvolti e di momenti indimenticabili, per risate e commozione, ci regala Un boss in salotto.

Ottima recitazione. Rocco Papaleo si conferma grande davvero. Ma Paola Cortellesi e Luca Argentero meritano altrettanti complimenti.