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lunedì 15 maggio 2017

Lusso a noleggio

Leggo dalle stime di Bain &Company e Farfetch che entro il 2015 il mercato dei beni luxury sarà in mano ai Millennials, la generazione Y, quella del terzo millennio, nata quindi dopo i primi anni ’80. A questi si sommano quelli della generazione Z, nati tra il ’95 e il 2000.
Sono giovani, acquistano online e, nelle scelte, sono influenzati dalle interazioni sul web.
Le aziende dovranno, anzi devono, tenerne conto.
Del resto è anche vero che parliamo di generazioni fortemente attratte dal ‘lusso di tendenza’ ma spesso con disponibilità economiche non proporzionate ai desideri. Ho specificato di tendenza perché anche il lusso ha, almeno in parte, cambiato faccia. Le vecchie generazioni conoscevano il lusso della qualità: la lana che costava più della fibra acrilica, il cristallo che valeva più del vetro. Nei decenni scorsi si è fatto largo il lusso di immagine: il capo firmato a prescindere dal tessuto o materiale, l’oggetto alla moda al posto di quello ottimo ma ignoto.
Generazione Y e Z sono protagonisti di un tempo veloce, che brucia un’icona per farne un’altra, che può rivelarsi incline a tradire un cult appena se ne profila uno nuovo all’orizzonte.
Anche a questo hanno pensato, le aziende. E’ il caso del lusso a noleggio, quello che dilata l’illusione, allarga la fascia di chi può accedere a brand di grido.
E’ il caso di Vestiaire Gallia, progetto lanciato all’interno dell’Excelsior Hotel Gallia di Milano: in alcune suite sarà disponibile un baule di meraviglie Hermès, Dior, Chanel, Yves Saint Laurent e altri marchi considerati top comodamente noleggiabili.
Analogo servizio, con tanto di concierge per scegliere tra le griffe, è attivo all’Hotel Berkeley di Londra.  
Prendo atto, così vanno il nostro costume e le nostre voglie. Mi accorgo di non essere Y o Z e di avere scarsa devozione per un luxury del tutto effimero, d’altra parte però mi scappa un evviva, di cuore. Intravedo un risvolto incoraggiante.
Ho conosciuto patiti di fiammanti auto sportive che dopo averne provata una a noleggio hanno letteralmente appeso il piacere al chiodo. Ho conosciuto fashion victim che si sono svegliate a felice vita scoprendo di essere e significare assai più di un logo o di un guardaroba stracolmo.
Ecco, il noleggio può essere lo sfizio che ti togli e poi ti fa mettere l’anima in pace. Fosse così non gusterebbe granché, ai signori della produzione, della strategia e del marketing, ma -chissà- potrebbe essere gradito alle tasche e allo spirito collettivi.

martedì 15 novembre 2016

Sogno di diventare ricca

Direte che ho poca fantasia, lo so.
La verità è che la ricchezza non è mai stata un mio sogno e anche al risveglio, a occhi aperti, pensavo non valesse affatto la pena di inseguirla.
Insomma contava riuscire a vivere senza pesanti affanni economici.
Oggi invece sogno di diventare ricca. E vorrei realizzare il sogno per misurarmi e misurare la mia coerenza. Terrei per me qualcosa in più di quel che serve a una vita senza affanni, lo dico, perché vorrei tranquillità, libri, cucina, teatro, cinema, musica senza limiti, e cercherei di garantire la medesima situazione ad altri.

Ecco, credo che sia bellissimo poter sollevare qualcuno dagli assilli economici. I denari a questo sono utili, talvolta addirittura indispensabili: a creare le condizioni di pensieri sereni. Non tiro in ballo la bontà, badate bene, ma la serenità. Perché solo così, sogno e penso, potremmo tutti godere un po’ di questo brevissimo passaggio che è la nostra esistenza.

venerdì 30 settembre 2016

Il lavoro fa bene

Che lavorare faccia bene, lo sanno alla grande quelli che un lavoro lo cercano o l’hanno perduto. Quelli che non si lamentano più, di quanto era faticoso, perché ora vorrebbero faticare. Quelli che sentono la dignità svuotarsi ‘solo’ perché non hanno mansioni quotidiane cui applicarsi con competenza e zelo. Quelli cui la crisi e i cambiamenti hanno ridotto gli orari di attività.
Non è puramente questione di paghe, compensi e stipendi che non entrano, sono falcidiati o traballano. C’è dentro molto di più, nel lavoro. C’è quello che siamo, che impariamo, che trasmettiamo, che viviamo. C’è quel pizzico di orgoglio per i progressi, quella curiosità per le novità, quel gusto della sfida, quella bella vanità dell’impronta personale, quel sorriso che si può regalare, quella capacità che gli altri trovano utile, quel patrimonio di momenti che via via diventa memoria, esperienza, stimolo, lezione.
E molto altro ancora. Magari un tessuto di nozioni e relazioni, una combinazione di luoghi ed emozioni, un bagaglio di piccole e grandi scoperte.
Peccato dunque che chi può goderne ogni giorno elargisca spesso poche energie, al lavoro. E’ un po’ come curarsi poco e male della propria salute. Già, tralasciamo -per somma cortesia- le questioni di chi ancora fa il proprio mestiere in condizioni insalubri o insicure. Badiamo alla stragrande maggioranza. A quelli che ogni mattina si recano in qualche ufficio, pubblico o privato, in cantieri regolari, in fabbriche a misura di legge e uomo, negli ospedali, nei negozi. Da dove tirano fuori tanta noia, tanta scortesia, tanta negligenza, tanta superficialità?
Altro che senso del dovere. Non ci sarebbe neanche bisogno di chiamarlo in causa. Basterebbe davvero ricordare che fa bene a se stessi, innanzi tutto, esprimere tutto il possibile, mettere attenzione in ogni cosa, cercare di migliorare sempre. Pure essere in pace con la propria coscienza, certamente, giova al benessere psico-fisico.

E poi basta, su. La vita è quando siamo in vacanza…ma anche no, accidenti!: la vita è in ogni nostro istante.

lunedì 29 agosto 2016

Vaffanculo

Terremoto, vittime, disastri.
Un po’ come una guerra, un po’ come un’esistenza nella fame, nella malattia, nella solitudine, nella sopraffazione, nella paura, nella tristezza. Violenze, della natura o dell’uomo, e dolore. Immenso dolore.
La ricetta magica, la soluzione per tutto, non ce l’ho. E poi, anche l’avessi in testa, chi cazzo sarò mai io per spargerla nel mondo?
Una cosa però ce l’ho. Una, una sola. La dignità di persona.
Che vuol dire tantissimo, se ci riflettete poco più di un secondo.
E allora non posso. Non posso mancarmi di rispetto e mancare di rispetto così tanto agli altri. Non posso bearmi del fiele che circola come fosse miele.
Contro una massa di incattiviti, di dietrologi, di arroganti, di indifferenti, non posso che urlare un vaffanculo. Giusto per alleggerirmi un attimo dal senso di oppressione che mi provocano.

Alla lista dei destinatari, già che ci sono, aggiungerei quelli che pontificano bene e razzolano mai. Così almeno per qualche minuto posso provare un benefico stato di liberazione.

martedì 14 giugno 2016

Omofobia: la violenza dei deboli

L’omofobia è la malattia dei deboli.
D’altra parte l’odio, la discriminazione, la violenza sono sempre terribili debolezze. Sono il pericoloso frutto della paura, dell’ignoranza, della stupidità. E spesso sono anche angosce indotte, fomentate da chi della paura, dell’ignoranza, della stupidità fa chiave di potere.
Come definire una ‘civiltà’ nella quale ha posto l’omofobia? Una civiltà miserabile.
Recita il vocabolario Treccani <degno di essere commiserato per la sua triste sorte, per la sua infelicità>. Ecco, il miserabile è infelice. Una cultura chiusa, annebbiata e triste è destinata a soccombere. La forza e l’energia delle diversità sono una ricchezza della quale si priva fino allo sfinimento. Opaca, attorcigliata su stessa, incapace di amare, votata allo squallore, partorisce un costume bieco.
L’omofobo è un essere costretto in una gabbia, insieme all’integralista di qualsiasi religione e al razzista.
Credo che spetti agli uomini e alle donne forti di questo mondo, con la loro letizia, la loro intelligenza, la loro sensibilità, far loro aprire questa dannata gabbia.
E’ possibile, una società dove regni su tutto il diritto alla serenità possibile…
Il rischio più grosso che corriamo è invece quello di restare nelle grinfie dei manipolatori del mondo, quelli che non riconoscono questo diritto perché  stroncherebbe le loro smanie di controllo.
E’ così che abbiamo partorito uomini che non sanno più essere uomini, eterosessuali che uccidono le donne che osano non essere succubi, donne che non hanno passione e rispetto per la loro stessa vera natura. E’ così che non ci vergogniamo della caccia alle streghe. E’ così che siamo diventati molli e fasulli. E’ così che abbiamo perso la dignità e la grandezza della vita.
Chi punta sempre il dito contro qualcuno vuole distoglierci dalla luna.
Che quel qualcuno sia gay, nero, ateo o credente per me francamente conta poco. Lui è me, sempre e comunque.  

giovedì 26 maggio 2016

Il lavoro che vi distrugge

A parte il lavoro davvero usurante, il lavoro che distrugge è quello che fate su voi stessi non facendo onore al cervello, piccolo o grande, che avete in dotazione, mancando di rispetto alle persone e alle cose, snobbando lo zelo e la passione, ignorando il dovere, scansando la fatica, svilendo la bellezza della coscienza, disprezzando la fierezza del risultato possibile.
Dovreste avere pietà di voi stessi, incoraggiarvi a un sussulto di dignità, permettervi di rialzare la testa, consentirvi un sereno riflesso allo specchio.
Smettetela di infierire sulla vostra essenza di uomini. Siate generosi con i vostri mezzi e le vostre energie, date loro l’occasione di essere utili. Siate audaci e abbandonate quel terribile tormento della mollezza. Siate lungimiranti e buoni con voi stessi: regalatevi l’ebbrezza di sentirvi finalmente parte attiva e positiva del mondo.
Suvvia, non logoratevi trascinando i piedi nei luoghi di lavoro come foste in prossimità del patibolo, tradendo buon gusto e disciplina, deludendo le vostre chances, abbruttendovi nella malavoglia con la quale sbrigate le incombenze.

Apritevi al piacere di lavorare, troverete qualche soddisfazione, qualche affermazione, qualche serenità.

mercoledì 18 maggio 2016

Per sempre

E’ curioso che gli amori debbano basarsi su una promessa eterna. E’ curioso che non sappiano essere assoluti un minuto e pretendano parole per sempre. E’ curioso che finiscano tra le braccia di amanti sognando lo stesso infinito. E’ curioso che non sappiano semplicemente esserci.
Quello che di più grande e meraviglioso potremmo dare a qualcuno è la nostra autentica presenza. Quella si, oggi e tutti i domani che verranno. Senza metterci sopra un’etichetta. Che già amicizia sarebbe platino con diamanti.

Io per te ci sono e ci sarò. Non conta che io ti dica perché, conta che tu possa contarci.

venerdì 15 aprile 2016

Capita che in campagna elettorale...

…diventino tutti bravissimi. Hanno un cervello da Einstein, una lungimiranza da statisti d’avanguardia, una creatività che ti dimentichi Picasso, una generosità che Madre Teresa finisce tra i poveri di spirito. Pure simpatici. O almeno quasi. Che insomma qualcuno pur con tutto il riconoscibile impegno è stato fulminato alla nascita da una scarica di sgradevolezza insanabile.
Mica penso alla mia città. Macché. Roma docet e in su e in giù per lo Stivale è tutta la stessa storia.
Giurano di avere la bacchetta magica.
Come se questo insopportabile affronto ai cittadini non fosse sufficiente tirano fuori l’asso dalla manica: la critica e l’insulto.
Almeno fosse ‘poco se mi valuto, molto se mi confronto’…Che dire, magra ma comunque accettabile consolazione ovvero ci indurrebbe al classico voto al meno peggio.
No, la loro campagna elettorale è l’esatta contestazione degli avversari: lui è fasullo, il mago vero sono io. Tirano fuori le peggio cose per infangare gli altri e gli viene facile: sono le peggio cose che hanno fatto o faranno pure loro.
Sono tutti esperti, in peggio cose, su questo non oso nutrire dubbi.
Questo fare di tutta l’erba un fascio è ingiusto! Questo disamore per la politica e questa diffidenza tout court sono perniciose! Già sento gli umori che si scaldano. Già, avete ragione.
D’accordo. Potremmo dunque votare chiunque abbia un dettagliatissimo programma del breve, medio, lungo termine con specifica delle modalità di attuazione, provenienza dei fondi e nomi e cognomi di ogni possibile alleato e collaboratore che contenga firma preventiva di dimissioni con pubbliche scuse e ritiro dalla scena in eterno alla prima omissione o deviazione, che non pronuncerà mai – mai vuol dire mai – menzogne contro colleghi attualmente in carica o concorrenti in altre liste. Naturalmente ogni candidato dovrà espressamente richiedere agli organi di giustizia di essere tratto immediatamente in arresto e condannato a scontare l’intera pena con i tempi e i modi dei comuni mortali qualora trovasse fonte di arricchimento dall’incarico per sé, familiari, parenti, amici e amici degli amici. Forse potremmo anche specificare che gli italiani non meritano di mettere croci su bifolchi, inquisiti, cattivi e fanatici.

Ci vediamo alle urne? 

mercoledì 10 febbraio 2016

Una serata tra donne

Donne, mi dissocio. Dall’invito e dalla smania. Sprofonderei solo a sentirlo dirlo e, non potendo, mi dileguo.
Ecco, se invento una scusa o mi prende uno dei miei violenti attacchi di orticaria che giustifica la mia assenza, non è perché mi manca il coraggio di dirvi chiaramente che non condivido l’urgenza e la gioia di una serata tra donne, è solo perché non ho voglia, non ho più voglia di dedicare energie a motivare il rifiuto.
Innanzi tutto significa che non avete poi tutto questo piacere di stare con me…è semplice, altrimenti mai e poi mai arrivereste a propormi un simile ‘evento’. Secondariamente non ho la presunzione di poter in alcun modo influenzare il vostro pensiero e convincervi garbatamente ad optare per una sana serata come viene ovvero a presenze miste, casuali, bilanciate o sbilanciate.

Ecco, questo è più o meno tutto. Insomma penso a una vita di persone e di interessanti incroci di armonie senza m e senza f identificativi. D’altra parte le donne e gli uomini che mi piacciono sono dalla mia parte e non è pura combinazione, no no!

giovedì 31 dicembre 2015

Evviva

Capita, di svegliarsi con un evviva in testa.
Forse perché il cuscino della notte ha tenuto in caldo i bei sogni o perché il cielo dalla finestra fa l’occhiolino.
Bisogna pensarci. Mettere i piedi giù dal letto con grazia, sorridere al mondo e affacciarsi alla colazione come fosse un banchetto festivo. E’ la maniera per ingraziarsi i buoni auspici e dilatarli nelle ore, è il senso di marcia che il passo non vedeva l’ora di imboccare.
E bisogna continuare. Continuare a pensarci fino a sera. Perché le coperte ben rimboccate, gli occhi ridenti, il corpo appagato, il cuore carico, lo conservino per l’alba successiva.
Mica si chiama ottimismo. E’ la storia della buona volontà. Quella che insegna a mettere l’anima in ogni secondo, di respiro in respiro. A maniche rimboccate, a intelletto limpido.
Che sensazione meravigliosa: evviva. Sono qui e godo. Godo per tutto quello che posso vedere, sentire, fare, dire. Godo perché non mi tiro indietro. Godo perché cerco il filo dell’armonia. Godo perché avverto tutta la stanchezza delle energie non risparmiate.

Capita, di capire che evviva è una scelta.

sabato 5 dicembre 2015

Oltre l'ombelico

Sono proprio belle le persone che vanno oltre il loro ombelico.
Sbagliano, piangono, barcollano ma stanno dentro la vita e sanno cos’è. Ascoltano il suo battito invece di misurarsi il proprio.
Non hanno le giornate facili, c’è sempre un problema che stringe loro la gola. Hanno più sogni che possibilità di realizzarli.

Ma proprio per questo sono vere, si divertono con poco, ti abbracciano quando ti incontrano, sanno sorridere pure del loro affanno. 

sabato 28 novembre 2015

Una vita su misura

Ci vorrebbe il sarto e neanche basterebbe. Saremmo capaci di trovarne uno di dubbie abilità e scarso zelo.
Siamo messi così. Egoisti o individualisti, ditelo un po’ come vi pare, fino alla più pericolosa e inspiegabile stupidità. Non esiste un mondo vivibile se non facciamo di onesta e buona volontà una ricchezza.
Mi irrita perfino l’idea che qualcuno mi bolli di ingenuità o banalità.
Almeno per tornaconto vogliamo renderci conto che infangare la vita non farà che farci vivere nel fango? Ecco, tutto qui. Insomma se proprio la sensibilità non è nel vostro dna fatene una questione pratica.
Non possiamo continuare a pensare che quello che avviene fuori dalla nostra porta di casa o dalla nostra zona di comfort o dal nostro spazio di interesse o piacere non ci spezzi prima o poi le gambe o ci cambi i connotati.
Non possiamo crederci superiori ad altri.
Non dobbiamo insultare la grandezza del creato.
E, francamente, neanche svilire l’umanità a un’accozzaglia di esseri mediocri cocciuti maligni feroci.
La vogliamo calda e fredda, a gusto personale. Senza un briciolo, e dico davvero un briciolo, di riflessione, apertura, lungimiranza, senso di giustizia. Tutto per una brama così ridicola e insensata da far accapponare la pelle.

Ma vaffanculo, verrebbe proprio spontaneo, all’imbecillità che ci ha reso gregge senza midollo e senza cuore.

venerdì 23 ottobre 2015

Antonio Mesisca: Nero Dostoevskij

Nero Dostoevskij è una pistola puntata alla tempia che invece di fotterti di paura ti fa contorcere dalle risate. Mica perché è una barzelletta. Macché. E’ una di quelle storie che, felicemente, non collochi. Alla faccia del genere letterario lui, Antonio Mesisca, fa surf in acque torbide e cristalline insieme. Così, per lucida fantasia o per squinternato realismo.
Prende alla pancia, Nero Dostoevskij. Innanzi tutto per il ritmo. E se questo pare una sorta di complimento minore, vi sbagliate di grosso. Insomma qui non è la scrittura, pur fluida e incalzante, a dettare il tempo. E’ la trama –noir, rock, esilarante, conturbante- a serrare il lettore in un abbraccio forsennato e incantevole.
Nella spirale della ricchezza e del gioco d’azzardo, Oscar Peretti, sfigato  e assassino, è uno di noi e ci porta a spasso nella variegata bestialità di un microcosmo di sentimenti slabbrati, malfattori contorti, macchiette di un verismo volutamente stiracchiato, avventure destre e sinistre.
Sullo sfondo delle risaie che, beate loro, stanno benone alla faccia di chi si illude che sognino il mare, il bandolo della matassa c’è ma non si trova, non c’è ma si trova.
A cavallo tra le questioni irrisolte, del nord, del sud, della sorte che li allea contro chi non è del nord e non è del sud, Antonio Mesisca mette in sella un frullatore a tutta velocità che mescola una quantità di personaggi, situazioni, stati d’animo talmente grotteschi da non esserlo affatto.
Gioca alla grande, con il paradosso del caso che spesso assomiglia, molto, alla realtà. Almeno quella dei pensieri. Mette insieme e muove i fili di una commedia della rabbia, del dolore, dell’assurdità, della banalità che ci attorciglia, ci strizza e poi ci stende al sole ad asciugare. Smaschera anche un po’, sicuramente. Magari con quel cinismo esasperato o quella frecciata buttata lì, a parole sottili. Già, ci ha messo dentro le osservazioni di anni e anni, Mesisca. Ma anche quella burla sfegatata che fa luce su ogni cosa.
Infatti tra un’avida incallita gioielliera, un manipolo di più o meno loschi figuri, le bizze dei signorotti, l’Oscar Peretti, un simpatico puttaniere, un investigatore corroso dal ruolo e le più tenere o tenebrose comparse, Nero Dostoevskij fa trionfare una comicità dark, sporca, grassa e proprio per questo travolgente.
Antonio Mesisca è maestro, di ironia. Sa bene che tutto, proprio tutto, può essere svelato, graffiato, dissacrato, urlato, con la sferzante potenza dell’umorismo. E che in fondo l’esistenza è davvero una burla delle ferree logiche immaginarie.
L’uomo è di pasta geniale, buona, stravagante, perfida, miserabile. E bisogna farsene una ragione. No, non per rassegnarsi. Per vedere meglio. Sotto la crosta. E non la tiro lunga con il bene e il male che si annidano in chiunque e ovunque, preferisco leggere Nero Dostoevskij come un sublime diversivo all’arte della bellezza piatta. Uno sfogo, una provocazione, una scarica di adrenalina, un moto di irridente saggezza…Mi piace, irridente saggezza.
Perché lui, Antonio Mesisca, è un mix di dolcezza e arguzia. Chissà come gode, ora. E io ne sono felice, molto felice.
Chapeau, applausi a scena aperta.

Antonio Mesisca, Nero Dostoevskij, Catrame noir, Scrittura&Scritture.

martedì 13 ottobre 2015

Strappateli di vita, i jeans

Jeans strappati, ovunque. La moda impone e non c’è prezzo, bastano che sia rotti. Oggi ho contato, uno per uno, cento ragazzi/e dalle superiori all’università in circa duecento metri di strada che percorro ogni giorno: tutti con i jeans pesantemente sdruciti, aggiungerei anche le all star ai piedi in effetti se non fosse che mi colpiscono di più i pantaloni e il motivo c’è, eccome.
I jeans sono gloriosamente nati come indumenti da lavoro, hanno sfidato il tempo, raggiunto ogni luogo del mondo, vestito tutti.
La loro praticità e resistenza li ha consacrati a cult indiscusso, trasversale alle epoche e alle età. E sono benvenuti in tutti i modelli, sia chiaro.
Ma la loro forza sta proprio nel carattere. E’ l’unico capo che viaggia come un prezioso oggetto in vera pelle o cuoio, più invecchia più ha stile. Il fatto è che deve invecchiare con noi, non all’origine. Dobbiamo avere la voglia e il coraggio di strapparli di vita, i jeans, non di pagare il ‘genio’ che ce li consegna già belli pronti per il sacchetto dei rifiuti. Possiamo tenere duro, cucirli e ricucirli, coprire un buco con una bella toppa, lasciare che si sbrindellino come capita. Infilarsi in quelli nuovi di zecca aggrediti dalle forbici li uccide almeno quanto uccide noi.
Mettiamo proprio a tacere tutto? Possibile che non ci sia più alcun desiderio di essere diversi da un numero? Uno dei cento, uguale agli altri novantanove, si distinguerà per il nome più di moda al massimo. Già, che c’è pure lo strappo griffato accidenti.
Io non so perché. Perché siamo arrivati fin qui. Perché non vogliamo che essere un minuscolo frammento della massa.

venerdì 2 ottobre 2015

Il lavoro nobilita

Il lavoro nobilita, non si discute.
Non è che nutrissi dubbi, in verità, ma le conferme dirompenti mi hanno persuasa a mettere un punto scritto. In tutto il bailamme della disoccupazione, della disperata mobilità, dei giovani con l’incognita del primo impiego, delle attività a rischio chiusura che fanno vacillare le sorti degli occupati mi sono arrivati forti e chiari puri i segnali del decadimento umano, morale, culturale, di quella deriva smidollata e vergognosa che davvero fa inorridire.
Inutile negare. Il menefreghismo, il fancazzismo dilagante, la mancanza di professionalità, il pressappochismo, l’indolenza sono talmente diffusi, irritanti, miserabili, dannosi che verrebbe da proporre uno scambio immediato: sostituire prontamente gli inetti, gli ingrati, i lamentosi, i fannulloni, gli improvvisati con i volenterosi, abili, bisognosi, zelanti che sono a casa o in lista d’attesa.
Ma è qui che scatta il dramma. E’ la soglia del posto di lavoro che cambia i connotati. Chi la varca sembra in diritto di avanzare ogni sorta di comoda pretesa senza nulla avere da dimostrare, fare, muovere.
Nel lassismo delle polemiche, delle ricette, delle ipotesi il caos ha preso il sopravvento e troppi si sono accomodati sulla loro stupidità, hanno abdicato alla dignità, all’orgoglio, all’entusiasmo, al senso del dovere, al rispetto.
Si sbandiera quella parola lì, dignità, solo in proprio difesa, per erigere barricate, per non mettere il naso fuori dal mansionario, per abbaiare contro chiunque attenti alla ‘certezza’ della busta paga a fine mese. La si dimentica e la si calpesta invece, tutte le volte che significherebbe comportarsi correttamente e seriamente, portare avanti a testa alta le proprie conoscenze e abilità, avere a cuore il buon andamento di qualcosa.
Ma in quale grottesca trappola ci siamo infilati?
Forse vagheggia in noi qualche bislacca idea di furbizia o di pigrizia, non so.
A me pare un’idiozia pericolosa, orribile, disgustosa.
Il lavoro non è tutto. Io odio la banalità devastante, pretestuosa, fuorviante, di questa espressione. Certo che non è tutto. E allora?
Il lavoro è una nostra dimensione. All’opera manifestiamo di che pasta siamo fatti. Cosa c’è da aggiungere, da togliere, da spiegare?
Non è questione di fare gli idraulici, gli ingegneri, gli impiegati dell’asl. Quale che siano i nostri ruoli, compiti, ambiti, abbiamo la decenza, la voglia, la forza, la coscienza per adempiere pienamente ciò a cui siamo chiamati?
Chissà se, come, quanto dialogano occupati e inoccupati e cosa davvero si dicono. Chissà cosa circola in questa società che emana cattivo odore e scarso onore. Chissà dove finiremo, tutti quanti, se ciascun onesto e preparato non comincerà a far notare, e a pretendere che si notino, le differenze.

Il lavoro nobilita…gli spiriti nobili.

domenica 20 settembre 2015

I baci di Alessandro Preziosi

Incontro Alessandro Preziosi nel suo terreno ma lui non doveva essere lì, insomma è un caso. Io al lavoro e lui anche in una mattina milanese.
Bell’uomo, Alessandro Preziosi. Più dal vivo che in video. Forse perché in carne e ossa è vero, con le mosse sciolte che fanno piglio ma non posa da vip. Forse perché l’effetto sorpresa lo consegna nature al punto giusto.
Non so come e perché, insomma fuori dai miei approcci obbligati da free lance non sono avvezza alla caccia delle ‘star’, lo avvicino e chiedo una foto con lui.
Così, per gioco, per simpatia. Lui glissa una manciata di secondi indicandomi i signori con i quali sta per appartarsi in conversazione serrata poi esplode in un sorriso: ‘meglio i baci’ e me ne schiocca due, di qua e di là sulle guance con i suoi occhi che brillano proprio come in tv.
Che sarà mai? Niente, un attore che gentilmente porge le labbra e un abbraccio a una fan. Ma io in fondo mica sono proprio una fan. Lo apprezzo, sicuramente, ma lì sono stata guidata dall’allegro istinto. E lui ha risposto con quel qualcosa che cavalca proprio l’onda del momento. Per gentilezza. Per assecondare l’attimo che piomba improvviso nell’ordine di un giorno qualsiasi.
Ci incontriamo ancora terminati i rispettivi impegni e stanchi entrambi. Scoppia la risata e ci scappa la foto.
Perché lo racconto? Perché talvolta mi stupisco ancora delle combinazioni curiose. Di una seccatrice davvero occasionale che al caro Alessandro Preziosi deve essere parsa invece una sorta di paparazzo non depistabile. Dei baci che non sono bastati. E dello scatto ricordo che vale almeno un post del blog.
Comunque sia buona vita, Alessandro Preziosi.

venerdì 11 settembre 2015

Scalza anch'io

Ci chiediamo sempre cosa concludono manifestazioni, appelli, raccolte firme e iniziative civili magari a forza di hastag. Certo è una condizione emotiva demotivante, quella del risultato non eclatante. Ma questa volta voglio chiedermi cosa ce ne facciamo della rassegnazione o dell’indifferenza. Meglio esserci e provarci che stare a rimuginare sull’utilità.
Che poi <l’utilità> è innanzi tutto proprio muovere il primo passo. Non c’è altro modo di sperare che il tentativo di fare qualcosa. Non risolviamo i problemi, non sfamiamo i rifugiati, non riportiamo la pace con una marcia a piedi scalzi?
Non ne sarei proprio sicura, in prospettiva. E’ solo questione di numeri. La marcia degli uomini e delle donne scalzi è un benvenuto culturale e sociale a un nuovo esercizio dell’umanità, del buon senso, della vita.
Che a botta di tacchi a spillo, comodità e amenità ce ne siamo lasciati indietro parecchio. E in questo perché non ci chiediamo con quale utilità? Non siamo certo più felici, anzi.
E poi è così asfissiante la logica di tirare a campare nelle proprie quattro mura che davvero non so come si faccia oggi a non avere voglia di starsene a piedi nudi. Sicuramente ci mancheranno un po’, le scarpe, ma –per magia- avvertiremo netto il desiderio di averne un paio qualsiasi a disposizione…Mica ci vogliono le All Stars Converse per non andare in giro scalzi.
Personalmente non mi serviva la marcia per averne consapevolezza e mi vergogno perfino un po’ a citarle ma, ammettetelo, per quanti è così?
Ecco, già sarebbe uno straordinario balzo in avanti.

Ne volete un altro? Uomini e donne. Che questo siamo, nel mondo. Non ricchi e poveri, belli e brutti, gialli e neri, fortunati e sfortunati. Uomini e donne. Con un’esistenza breve, brevissima, che forse merita davvero la marcia mentale giusta.

lunedì 7 settembre 2015

Benvenuti!

Come potremmo dare davvero il benvenuto in un Paese che non ci appartiene e al quale non apparteniamo?
Al di là dei molti e complessi discorsi economici e politici, per i quali è indubbio non siamo campioni di lungimiranza e abbiamo invece il primato del caos disonesto, ci manca il tessuto emotivo. Già, noi abbiamo legami da stadio con il nostro territorio, non radici passionali con la nostra terra. La ‘difendiamo’ come se il nostro orto fosse minacciato, non la offriamo come la migliore delle nostre forze perché chiunque ci arrivi la rispetti. E’ una questione enorme. Enorme e triste.
Chiediamo un amore che non proviamo. E lo facciamo per egoismo, viltà, piccolezza, paura. Temiamo ci portino via ciò di cui non andiamo mai fieri, maltrattiamo e malediciamo. Assurdi e ipocriti!
Lo ‘straniero’ è una minaccia. E, paradossalmente, è vero. E’ lo specchio che ci sbatte in faccia quello che siamo. E’ quello che ha un bagaglio che noi abbiamo scordato. E’ quello che si rimbocca le maniche che noi teniamo serrate ai polsi. E’ quello che impara a conoscere il nostro Paese meglio di noi. E’ quello che ci dimostra che esistono luoghi e valori dell’anima e non solo inutili orti e squallidi slogan.
‘Loro devono adeguarsi’. Adeguarsi a chi, a cosa? A milioni di abitanti che non si sentono un popolo, al caos corrotto e disonesto, alla deriva umana?
Già. Non potremmo mai chiedere loro di essere migliori di quello che siamo noi.

giovedì 27 agosto 2015

Sculettare

Più o meno incedere con ondeggiamento delle anche. Un po’ moto naturale, un po’ civetteria, diranno gli uomini avvezzi a posare lo sguardo sulla donna che sculetta.
Questa è la natura. Già, quella del sedere che si mena, o è menato, a destra e a manca. Come quei viottoli di campagna nella luce alta del sole d’estate quando l’aria brilla e ogni gomito pare che oscilli come una canna al vento. Come quegli aquiloni incerti, che tremano appena nei primi metri di cielo immobile. Come i gatti che sembrano sempre in posa sinuosa per una fotografia. Come le nuvole, quando fanno i loro piccoli soffici viaggi.
La malia di quello che sculetta è un po’ come l’incanto del pendolo che ci fa spostare lo sguardo di qua e di là, che ci rimanda in mente chissà cosa di lieve, che mentre attira la nostra attenzione ci ha già inebriato.
E’ bello, quell’andamento un po’ così. Quello che ti lascia uno spiraglio di fantasia. Quello che vorresti fermare con le mani ridendo come i bambini euforici.

C’è chi impara l’arte, di sculettare. E chi si sveglia sculettando al mattino porgendo un sorriso al giorno. Come le tende dietro la finestra socchiusa in primavera. Un dipinto di vita.

martedì 4 agosto 2015

Ricchi e felici

Lo conosci quel lamento? Quello dei ricchi che si guardano le spalle e non sanno più di chi fidarsi. Quello dei ricchi che provano lo sconforto di ricevere riguardi e non rispetto. Quello dei ricchi che respirano la noia dei desideri esauditi in un lampo. Quello dei ricchi che rischiano di essere posseduti dalle cose che hanno e devono avere.
Si, lo conosciamo più o meno tutti, noi che ricchi non siamo.
E’ più difficile conoscerne un altro, di lamento. Quello dei poveri. Che talvolta non hanno voce e forza, neanche per lagnarsi. Al massimo sospirano, al buio. Quando sono stanchi. O quando sognano e sperano, a occhi chiusi o aperti. Non li sentiamo ma di sicuro possiamo intercettare qualche sorriso, quando comunicano con gli occhi e qualcosa di bello o buono capita sulla loro strada.
Sembrano storie parallele, destinate quindi a non incrociarsi, al massimo a sbirciarsi, l’un l’altra, di lontano. Magari con sospetto, invidia, rassegnazione, perplessità. Oppure con un languore. Qualcosa che assomiglia a una vaga percezione di disagio. E’ quello il momento esatto in cui si fa largo la consapevolezza di quanto ognuno possa sprofondare nel vuoto se non trova il modo di far convergere i cammini verso una sorta di punto d’incontro.
Sarà solo un istinto romantico, debole, ideale?
Ho l’impressione che la felicità sia una parola grossa da maneggiare. Forse per gli umani si palesa solo in guizzi. E d’altra parte anche la serenità è una chimera, tanto per i ricchi quanto per i poveri. So che l’equilibrio non esiste e che il mondo vivrà per sempre degli uni e degli altri e non di un miscuglio a dose perfetta. Eppure ho la sensazione che sia molto sciocco illudersi e smaniare per un’esistenza almeno sopportabile senza mettere in conto di giocare un po’ a viso aperto e carte scoperte. Senza osare la magia delle mescole e degli impasti.

Dite che è difficile immaginarli, i ricchi felici di condividere benessere, aria e giornate con i poveri? Chissà…