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martedì 4 agosto 2015

Ricchi e felici

Lo conosci quel lamento? Quello dei ricchi che si guardano le spalle e non sanno più di chi fidarsi. Quello dei ricchi che provano lo sconforto di ricevere riguardi e non rispetto. Quello dei ricchi che respirano la noia dei desideri esauditi in un lampo. Quello dei ricchi che rischiano di essere posseduti dalle cose che hanno e devono avere.
Si, lo conosciamo più o meno tutti, noi che ricchi non siamo.
E’ più difficile conoscerne un altro, di lamento. Quello dei poveri. Che talvolta non hanno voce e forza, neanche per lagnarsi. Al massimo sospirano, al buio. Quando sono stanchi. O quando sognano e sperano, a occhi chiusi o aperti. Non li sentiamo ma di sicuro possiamo intercettare qualche sorriso, quando comunicano con gli occhi e qualcosa di bello o buono capita sulla loro strada.
Sembrano storie parallele, destinate quindi a non incrociarsi, al massimo a sbirciarsi, l’un l’altra, di lontano. Magari con sospetto, invidia, rassegnazione, perplessità. Oppure con un languore. Qualcosa che assomiglia a una vaga percezione di disagio. E’ quello il momento esatto in cui si fa largo la consapevolezza di quanto ognuno possa sprofondare nel vuoto se non trova il modo di far convergere i cammini verso una sorta di punto d’incontro.
Sarà solo un istinto romantico, debole, ideale?
Ho l’impressione che la felicità sia una parola grossa da maneggiare. Forse per gli umani si palesa solo in guizzi. E d’altra parte anche la serenità è una chimera, tanto per i ricchi quanto per i poveri. So che l’equilibrio non esiste e che il mondo vivrà per sempre degli uni e degli altri e non di un miscuglio a dose perfetta. Eppure ho la sensazione che sia molto sciocco illudersi e smaniare per un’esistenza almeno sopportabile senza mettere in conto di giocare un po’ a viso aperto e carte scoperte. Senza osare la magia delle mescole e degli impasti.

Dite che è difficile immaginarli, i ricchi felici di condividere benessere, aria e giornate con i poveri? Chissà… 

lunedì 30 giugno 2014

La canzone di Mario

Questa di Mario è la storia vera che scivolò nel fiume a privamera.
E ci scivolò davvero. Tanto da inzupparlo. Che non fu dramma perché il tepore del sole in qualche ora fece la sua parte e lo restituì asciutto alle sue pedalate di ritorno ma che qualche spavento lo procurò. Mentre i pescatori sulla riva tenevano d’occhio i segnali dei galleggianti quello splash inaspettato arrivò come un gesto troppo sconsiderato o troppo audace. Troppo.
Chi poteva immaginare fosse solo una tragicomica combinazione di circostanze? Neanche Mario. Che curiosamente rimase pure in sella come se volesse cimentarsi in una prova di acqua-bike.
E poi le risate. Quelle di sollievo. Quelle del pensiero che si riavvolge e rivede tutti gli spezzoni di una sequenza che farebbe invidia al più provetto degli stuntmen. Quelle del chisseneimporta della maglietta stinta addosso, delle scarpe più o meno da buttare, dei capelli che fanno a meno del gel. Quelle di un’avventura da raccontare con tanto di applausi di sottofondo.

Perché la storia che scivolò nel fiume a primavera questa volta non è volata in cielo e ancora vive.    

martedì 17 giugno 2014

Quanta debolezza nella violenza

La violenza è spesso la malattia della debolezza. Dietro i muscoli e la mascella serrata in un atroce ghigno si nascondono incapacità, fragilità, insicurezze.
Non si può giustificare perché purtroppo genera sofferenza, fa danni, distrugge esistenze. Ma si deve capire. Bisogna sapere e riflettere su quel terribile disagio che fa esprimere con le mani o le armi.
E’ l’unico modo per non finire tutti potenzialmente vittime della malattia o di ciò che essa causa agli altri. Non mi esprimo qui con le competenze di criminologia, lo faccio da donna, da persona di questo tempo e di questo mondo. Lo faccio con l’istinto. Quello che mi dice che si lacera facilmente un tessuto che non è di buona qualità, che è liso o maltrattato. Quello che mi dice che la corda tirata si può spezzare in un lampo. Quello che mi dice che il disastro della comunicazione e delle relazioni non può che produrre tragedie.
Chi usa la forza per imporsi o per spezzare la vita altrui non può mai ricevere la nostra indulgenza e la nostra approvazione. Ma non può bastare la condanna. Bisogna evitare quanto più è possibile che accada ancora, di nuovo, e poi un’altra volta.
Occorre una ‘cultura della non violenza’, innanzi tutto. Che vuol dire molto di più e molto altro di una pena per chi uccide o tenta di farlo. Serve una di quelle parole grosse, molto grosse. Qualcosa che assomigli alla serenità, ecco. Perché, al di là delle condizioni individuali, quello che è saltato è il senso collettivo dei valori, delle misure, delle prospettive. Soprattutto tra uomini e donne. I punti di conflitto hanno superato quelli di armonia. Mancano equilibri di riferimento. Ci sono troppe cause di rabbia e frustrazione.
Inutile negare il baratro tra le due facce della mela e poi svegliarsi con il dito puntato quando il bubbone esplode. Inutile fingere di non accorgersi che ci siamo allontanati. Inutile arroccarsi sui diritti e sulle libertà quando questo non cela che un fallimento che impoverisce tutto e tutti.
Se c’è una cosa spaventosamente diffusa quella è l’infelicità. Quella della solitudine. Quella della gabbia. Quella della frattura.
Teoricamente saremmo nati per completarci, in amicizia, amore, condivisione. Ma la verità è che ormai facciamo una fatica immane a trovare corrispondenze. Abbiamo paure, pregiudizi, arroganze devastanti. Aspettiamo o pretendiamo di essere collocati su un piedistallo ma non vi collochiamo alcuno. Manchiamo di rispetto ma lo esigiamo. Abbiamo ‘maturato’ un egoismo atroce che sventoliamo come bandiera di indipendenza. Siamo piccoli e stupidi. Diamo sempre, al massimo, ciò che riceviamo. Mai più slanci e naturalezze, solo tattiche di difesa o di opportunismo.

Ci sentiamo moderni. Invece siamo miserabilmente in frantumi.