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martedì 17 giugno 2014

Quanta debolezza nella violenza

La violenza è spesso la malattia della debolezza. Dietro i muscoli e la mascella serrata in un atroce ghigno si nascondono incapacità, fragilità, insicurezze.
Non si può giustificare perché purtroppo genera sofferenza, fa danni, distrugge esistenze. Ma si deve capire. Bisogna sapere e riflettere su quel terribile disagio che fa esprimere con le mani o le armi.
E’ l’unico modo per non finire tutti potenzialmente vittime della malattia o di ciò che essa causa agli altri. Non mi esprimo qui con le competenze di criminologia, lo faccio da donna, da persona di questo tempo e di questo mondo. Lo faccio con l’istinto. Quello che mi dice che si lacera facilmente un tessuto che non è di buona qualità, che è liso o maltrattato. Quello che mi dice che la corda tirata si può spezzare in un lampo. Quello che mi dice che il disastro della comunicazione e delle relazioni non può che produrre tragedie.
Chi usa la forza per imporsi o per spezzare la vita altrui non può mai ricevere la nostra indulgenza e la nostra approvazione. Ma non può bastare la condanna. Bisogna evitare quanto più è possibile che accada ancora, di nuovo, e poi un’altra volta.
Occorre una ‘cultura della non violenza’, innanzi tutto. Che vuol dire molto di più e molto altro di una pena per chi uccide o tenta di farlo. Serve una di quelle parole grosse, molto grosse. Qualcosa che assomigli alla serenità, ecco. Perché, al di là delle condizioni individuali, quello che è saltato è il senso collettivo dei valori, delle misure, delle prospettive. Soprattutto tra uomini e donne. I punti di conflitto hanno superato quelli di armonia. Mancano equilibri di riferimento. Ci sono troppe cause di rabbia e frustrazione.
Inutile negare il baratro tra le due facce della mela e poi svegliarsi con il dito puntato quando il bubbone esplode. Inutile fingere di non accorgersi che ci siamo allontanati. Inutile arroccarsi sui diritti e sulle libertà quando questo non cela che un fallimento che impoverisce tutto e tutti.
Se c’è una cosa spaventosamente diffusa quella è l’infelicità. Quella della solitudine. Quella della gabbia. Quella della frattura.
Teoricamente saremmo nati per completarci, in amicizia, amore, condivisione. Ma la verità è che ormai facciamo una fatica immane a trovare corrispondenze. Abbiamo paure, pregiudizi, arroganze devastanti. Aspettiamo o pretendiamo di essere collocati su un piedistallo ma non vi collochiamo alcuno. Manchiamo di rispetto ma lo esigiamo. Abbiamo ‘maturato’ un egoismo atroce che sventoliamo come bandiera di indipendenza. Siamo piccoli e stupidi. Diamo sempre, al massimo, ciò che riceviamo. Mai più slanci e naturalezze, solo tattiche di difesa o di opportunismo.

Ci sentiamo moderni. Invece siamo miserabilmente in frantumi.

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