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lunedì 16 giugno 2014

La storia di Hackiko

Una storia che tutti conoscono o dovrebbero conoscere. Una storia diventata il film delle emozioni e delle lacrime. Una storia di ‘grande spiritualità’, secondo l’attore Richard Gere che vi ha letto e magnificamente interpretato l’infinita connessione tra esseri viventi.
La storia di Hackiko non commuove solo perché è la più splendida celebrazione del rapporto tra un cane e un uomo. Sbalordisce perché ci consegna una dedizione e un affetto senza scadenza.
Penso spesso alla storia di Hackiko. Alle nostre ostinate precarietà. Alle nostre leggerezze colpevoli. Alle nostre povertà, o viltà, di spirito. Perché la lezione di Hackiko contiene le domande e le risposte. Soprattutto al nostro ‘vuoto’. A quello che colmiamo con momenti e cose, acchiappati alla rinfusa. A quello che stordiamo per non sentire. A quello che neghiamo per esorcizzare. A quello che malediciamo per fastidio e rabbia.
Davanti al ‘vuoto’ ogni reazione è umana. Ma, almeno talvolta, sarebbe altrettanto umana l’accettazione. La storia di Hackiko ci presenta proprio la pienezza del vuoto. Ovvero quello dal quale il più delle volte ci allontaniamo…
Hackiko attende il padrone morto per dieci lunghi anni. Non si ribella al vuoto e neanche si rassegna. Semplicemente lo vive. Lì. Dove sono stati insieme. Lì. Dove si sono lasciati. Lì. Dove, chissà, potrebbe continuare ad avvertirne il respiro.
Hackiko non vuole rinunciare alla pienezza che ha conosciuto. E solo nel vuoto sa di continuare a tenerla nel raggio del suo fiuto. Forse è proprio questo l’amore. Forse è proprio questo il senso della vita. Esserci fino in fondo. Anche quando fa male. Perché quello che siamo è anche in quello strazio.

E mi chiedo spesso se possa riuscire anche a me, anche agli uomini, avvertire più la pienezza che il vuoto. Chi non possiamo trattenere continua ad esistere nel nostro tormento o nelle gioie della memoria?    

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