Pagine

giovedì 29 maggio 2014

Un istante che rimane lì piantato eternamente

Per sempre. Solo per sempre. Che non ti serve un diario, una festa, una foto. E’ lì. Come se scorresse nelle vene. Un neo sulla pelle. Un pensiero che vive dentro di te.
E’ più di un ricordo perché è passato, presente e futuro insieme. Nelle tue tasche, nei tuoi cassetti, nei tuoi occhi.
Qualcosa che puoi dire ‘per sempre’. Nel bene e nel male. Bello o brutto. Un istante scritto nel cielo, ti segue ovunque tu vada. Certezza, sorriso o pena. E’ anche un po’ della tua anima. Un po’ di quello che sei e sarai. Che senza quell’attimo magari saresti un altro, chissà.

Hai ragione, caro Ligabue. E non serve evocare straordinarie emozioni, eventi fenomenali, effetti speciali. Per sempre magari è un sorriso, una tazza di caffè, un mattino di primavera, una carezza. O quella lacrima, proprio quella lì, nella camera buia di una città arrabbiata.
E chi esce di scena, quello che non abbiamo più tra le mani può restare lì piantato eternamente...

martedì 27 maggio 2014

Cose da donne

Perché se ci prova è un porco. Se insiste chi si crede di essere e per chi ci ha preso. Se fa l’amico non siamo più seducenti. Se ci ignora è un cretino, per dirla gentilmente.
Non che le donne siano solo questo, fortunatamente. Ma, insomma, questo è un ritratto che difficilmente possiamo dire non ci riproduca in modo molto, molto, molto vicino alla realtà. Quasi che la femminilità passasse da quell’attimo. Dallo sguardo che si ferma, si gira e ci accompagna. Dall’invito, dalla proposta, dal complimento. E da una misura perfetta, che lusinghi ma rispetti.

Che poi sono un po’ frottole, ammettiamolo. Perché quello che ci piace può essere un porco presuntuoso amico cretino e quello che non ci garba non ne azzecca una neanche se è il migliore degli uomini.

lunedì 26 maggio 2014

Viva le mutande

Curioso si possa pensare di scrivere un inno alle mutande. Eppure…
Capita che si scoprano un po’ out e l’idea intenerisca, tutto qui.
Le mutande ci accompagnano da lungo tempo. E tutto sommato quando siamo a corto di risorse economiche o subiamo un vero e proprio assalto alle finanze siamo abituati a rimanere proprio con loro. Sono fedeli, insomma, le mutande. Una seconda pelle. Roba che poi ci consente tutte quelle condizioni come il pudore o la decenza, la sensualità, l’igiene. Perfino un po’ di protezione dalle zip.
Non onorarle è spiacevole, direi. Fatta eccezione per tutte le circostanze in cui è felice idea non indossarle o toglierle, dovremmo tutti i giorni a tutte le ore essere certi di averne un paio al loro posto. Che non è il cassetto, appunto. E neanche la lavatrice o il filo sul quale stendiamo il bucato. Le mutande devono camminare con noi. Aderire al nostro corpo, far parte dei nostri pensieri.
E non per piccole questioni di vergogna o convenzione. E’ buon gusto al quale non rinunciare, ripeto. Loro sono disponibili, carine, colorate, morbide, affettuose. Un po’ di rispetto, signore e signori. I vostri pruriti grattateli senza archiviare la prassi delle mutande, per cortesia. Nei luoghi e tempi opportuni le sfilate con grazia e giù a soddisfare piaceri e bisogni. Ma, al di là di questi luoghi e tempi, tenete coperte le vostre basse glorie.
Nei locali pubblici o aperti al pubblico i frequentatori eventualmente interessati a vedere come siete sotto troveranno la via per chiedervelo o scoprirlo. D’altra parte, se vi garba, potete invitarli in separata sede e mostrarvi spontaneamente. Tenete fuori dalla vista panoramica gli altri. Quelli come me che, francamente, si accontentano di immaginare.
Comunque, se posso permettermi, il consiglio di favorire la fantasia più del paesaggio potrebbe essere valido per tutti. Da che mondo è mondo è più affascinante quello che non si palesa sfrontatamente agli occhi…

Viva le mutande. Sono tempi difficili. Di bellezza e seduzione ad ogni costo. Ma a ogni costo guardate che il più delle volte non possiamo permettercelo!

sabato 24 maggio 2014

Cerco un ghostwriter

Cerco un ghostwriter: una di quelle mail che leggo con molto piacere, visto che profumano di possibile incarico.
Normalmente sono mail che contengono informazioni, spiegazioni, domande. In qualche caso invece l’autore si cela dietro un nickname e svela praticamente nulla del lavoro che vorrebbe commissionare. Io comprendo un po’ di diffidenza digitale, un po’ di prudenza letteraria e pure un po’ di disagio e uso quanta più possibile delicatezza e gentilezza però, da buon ghostwriter, faccio fatica a ‘calarmi nella parte’ alla cieca.
Rispettare segretezza e riservatezza non può includere disponibilità e offerte senza un sensato riferimento alla concretezza del servizio da rendere. Questo, caro prezioso autore, devi capirlo. Anzi, ammirarlo. La faciloneria con la quale chiunque potrebbe garantirti un best seller con due righe e quattro soldi non fa per te. Tu meriti attenzione e serietà. Per incontrarle, pure per pretenderle, devi prestarne altrettante. Parla chiaro, chiedi, metti alla prova, muovi una corrispondenza. Non lasciare tutto nel mistero, metti in crisi il ghostwriter e rischi di perdere l’occasione di un'esperienza proficua.
Magari una risposta inadeguata o poco esauriente è frutto di scarsi o ambigui spunti e così saltano le possibilità di soddisfacente collaborazione. Le migliori combinazioni nascono dalla reciproca correttezza, dalla fiducia e dall’entusiasmo che siglano un’alleanza.

Infine, stimato e agognato autore, insisti a sondare formazione, stile e sensibilità del ghostwriter, non a chiedergli referenze che, proprio se è persona affidabile, non potrà mai darti. Vorresti tu che spifferasse al mondo di essere la tua penna o la tua tastiera?

Felicità lampo

Anna ce la faceva. A maneggiare quella zip con rapida euforia.
Aveva il cuore tenero, i riflessi pronti, i sogni in mano. Spalancava gli occhi estasiati e saltellava di incontenibile eccitazione. Come avesse a portata di gioco la bambola dei suoi cinque anni, nel piatto la torta buona della nonna adorata, ai piedi le prime decollete con il tacco.
Non perdeva un colpo. E ci voleva proprio poco. Un soffio a sorpresa e il battito apriva la danza. Era una telefonata, una canzone, un film, un bacio, una promessa. E lei esplodeva in sorrisi e moine. Ricaricava le pile e via, verso l’emozione di turno.
Forse non erano tutte meraviglie ma la collezione di felicità brevi era comunque una risorsa di valore, un bene rifugio, un conforto tutt’altro che blando. Ne faceva tesoro. Annotava qualcosa sul diario, raccontava l’avventura alle amiche, si guardava allo specchio compiaciuta. Ne aveva fatta di strada, toccando e vedendo. Ne aveva conosciute di anime e sensazioni, correndo dietro le bizze dell’istinto.
Solo che a un tratto la felicità lampo ha preso a starle stretta, a farle male. Le è maturata in testa un’idea più bizzarra dei suoi guizzi: quella che potesse meritare un lungo, inebriante benessere. Una fatale lusinga, forse. O quella noia che arriva, che non fa più sopportare gli amori a termine, i momenti veloci, la notte dopo il giorno. O magari l’inganno biologico, quello che fa questione di età e a un certo punto del calendario insinua il tarlo della stabilità.
Stabilità, che già a pronunciarla la fa evaporare, la felicità.
Chissà poi cosa intendesse davvero con quel desiderio un po’ grande un po’ sfuggente. Che un lungo, inebriante benessere è come l’erba voglio che non c’è neanche nel giardino del re.

Adesso seduta al tavolino di un bar sorseggia un caffè come se la tazzina fosse senza fondo. Lenta e assorta. Non finisce mai. Forse assente a se stessa. O, almeno alla felicità. E i lampi nel cielo, quelli si, fanno quello che vogliono e stravolgono luci e ombre. 

venerdì 23 maggio 2014

Il ritratto: Edy De Lucia, magnifica Cenerentola

Edy è la moderna Cenerentola novarese. Una versione con molto appeal e altrettanta magia. La magia del lavoro e del buon umore, che a vederli coniugati rendono perfettamente l’idea della favola.
La regina della raccolta differenziata la trovate nel centro storico intenta a svolgere il servizio con zelo gentile e grande piacere. Una figura impareggiabile, Edy. Innanzi tutto per il sorriso. E poi, appunto, per quella dignità leggiadra e vivace del ruolo. Così rigorosa eppure così frizzante da essere una specie di piccola eroina quotidiana. Edy è come un’amica, la vicina di casa buona e generosa, il folletto della giungla monumentale. Lei ha cura, molta cura. Delle sue funzioni e di tutte quello che può fare per le sue strade, per la sua gente.
Un gioiellino di donna, Edy De Lucia. Mora graziosa sempre pronta a una parola di disponibilità. Dolce e grintosa insieme, come se la bacchetta magica avesse mescolato splendidamente le virtù. Ecco, la sua storia è in un’umanità vigorosa che conosce il dovere e la responsabilità quanto il gusto delle emozioni e delle relazioni.
Eppure Edy fa ‘solo’ quello che dovremmo fare tutti: spendersi, anima e corpo, per la vita. Esserci, insomma, con testa, mani e cuore. Ma la verità è che Edy De Lucia è un modello, un simbolo, un invito che posso solo sperare abbia forza contagiosa. Perché siamo nell’epoca nervosa, annoiata, triste, svogliata, disattenta. E essere e fare ‘solo’ quello che Edy dimostra è, almeno, da abbraccio e applauso.
La mia domenica è scandita dall’incontro con Edy, io a passeggio e lei all’opera. Ma ricordo anche quando l’appuntamento era di venerdì, entrambe affaccendate. Gli anni passano e Edy resta una garanzia. Per me, per i portici e il bellissimo intruglio di viuzze della vecchia Novara, per tutti quelli che hanno occhi per vedere e anima per cogliere.
Anche la sua pelle, come quella di tutti noi, conosce l’affanno e le pene. Ma lei non lascia che siano loro a vincere o a giustificare mancanze, pigrizie, miserie morali. Lei prova sempre, ostinatamente, a essere e a fare Edy De Lucia, magnifica Cenerentola. In qualche modo, ne sono certa, la vita la ripagherà. Intanto ‘celebrarla’ è il minimo che io possa fare. 
A Edy un ritratto così calza a pennello, per simpatia e entusiasmo. Gli stessi che trasmette lei. Chapeau, cara, sei una grande donna.

giovedì 22 maggio 2014

La lettera d'amore

Già vedersi recapitare una busta che non contenga conti da pagare, esortazioni elettorali o comunicazioni su nuovi adempimenti è un’esperienza rara di questi tempi. Tempi digitali, tempi rapidi, tempi asciutti. Leggere un mittente che ha il nome e il cognome del tuo amato è sbalorditivo.
P l’ha aperta con una vaga apprensione, a muoverlo a scriverle poteva esserci qualche ragione difficile da esprimere a voce. Ecco, una lettera ormai è un’ipotesi estrema.
E’ stato un caso la leggesse davanti a me. Semplicemente non voleva rinviare, sospetto e curiosità la divoravano. Ho fatto quello che ho potuto per levarla dall’impaccio occupandomi del riordino della mia borsa, del finto controllo del trucco che non metto, perfino delle generalità stampate sui citofoni del suo palazzo a rischio di essere scambiata per qualche venditrice rompiscatole.
Ma avete presente cosa capita di intercettare con la coda dell’occhio?
P aveva il cuore che scorrazzava tra eccitazione e commozione e io sentivo accelerate e frenate del suo battito. Le guance sempre più rosse. Le mani sempre più tremolanti. E infine le lacrime. Si intuiva benissimo che era un pianto di gioia, evviva, la cosa mi ha sollevato non poco…
Le ho dato un buffetto sulla guancia, poi le ho strapazzato un po’ i capelli. Che emozione!
P, tra i singhiozzi e gli abbracci, mi ha detto solo: ‘mi ama e ha voluto scriverlo perché mi rimanesse qualcosa per sempre’.
L’amore rimane, se è destino, senza bisogno di parole e di lettere. Però una lettera d’amore è molto più di un gesto romantico. Oggi è una prova di volontà, di impegno, di dedizione. A. ha avuto l’idea, ha cercato fogli e busta, si è seduto a pensare e scrivere, ha acquistato il francobollo e spedito. E non è come infilarsi in un negozio a comprare un regalo. Questo è un dono di tempo e delicatezza. Magari un augurio. E, peraltro, una scelta originale. Che, chi non ti manda un t.v.b. via sms o non pubblica un bel cuore rosso sulla tua bacheca di fb e invece ti raggiunge con la ‘fatica di una lettera’ è già sulla buona strada.

Buona vita, P e A!

martedì 20 maggio 2014

Alice non è nel Paese delle meraviglie

Alice, un nome che evoca avventure e meraviglie. Un nome che immagini come un’inclinazione precisa, romantica o giocosa. Se non addirittura una scelta profondamente significativa.
Pensi in qualche modo di sapere perché i genitori diano alla loro creatura il nome Alice. Non ti viene facile credere sia solo il piacere della parola e del suo suono. O il primo balzato in mente, in tutta fretta. Questo è quello che capita ai nomi che hanno una ‘storia’. Pare debbano averci molto in comune tutti quelli che lo portano.
Conoscere Alice smonta tutto. Lei se lo ritrova addosso come la più atroce delle beffe. Che il suo è stato un Paese senza terra, di quei luoghi chiusi in quattro mura di violenza. Dove ha provato solo l’orrore di passi, carezze, gemiti che non avrebbe dovuto incontrare. E non ha potuto fantasticare su un mondo diverso. Le sono mancati il tempo e le ispirazioni. Perché pure per costruirsi in testa una favola bisogna avere risorse e orizzonti.
Alice è quello che resta di un’anima abbracciata solo da un malato possesso. Uno sguardo spento, incapace perfino della rabbia e del rancore. E un corpo minuto che sembra piegarsi alla minima brezza, come se non potesse più resistere neanche al più docile tocco. Quando accenna un sorriso, perché la crudeltà non le ha tolto una commovente gentilezza, le tremano le labbra. Forse non versa più lacrime e emozioni, timori, ansie premono tutte lì, sulla bocca rossa e bella.
Alice potrebbe avere un futuro, chissà, se riuscisse a perdere la memoria. O ad abitare davvero in un’isola felice che le consegni qualcosa di buono, almeno un po’ dei sentimenti e della magia del suo nome. Perché la sola libertà di un lutto non ha ancora guarito le enormi ferite. Anzi, paradossalmente, le ha lasciato solo lo smarrimento della solitudine. E tante domande, troppe, senza risposta.
Già, capita così. Che un nome non porti avventure ma disavventure. Che le disgrazie subite lascino sensi di colpa invece di sollievo.

Alice, Alice. Vorrei tu vedessi il sole.

venerdì 16 maggio 2014

Il treno delle sorprese

E’ noto che i ricordi stiano spesso accovacciati nei diari. Qualche volta con un quadrifoglio che più secco non si può. Altre sul biglietto di un concerto o in un cuore rosso pomodoro. Sorprende di più trovarli su un treno, seduti accanto a noi, lungo una tratta qualsiasi, di quelle che non danno scossoni alla memoria. Con lo stesso sorriso sotto i capelli più grigi. Con tutta l’aria di non aver mai del tutto abbandonato il passato e una manciata di parole pronte, neanche ti stessero aspettando. Già, i ricordi talvolta sembrano in attesa di un’occasione per sbucar fuori.

Bello ci sia ancora un corpo in carne ed ossa e non un profilo su facebook. Bello che gli anni, oltre alle burle, agli acciacchi, alle disillusioni, portino anche le chiacchiere e gli sguardi complici. Bello che certe parentesi possano riaprirsi o non essere mai veramente chiuse. E bello pure che ci siano giorni in cui il destino decide di stupirci. O forse di lanciarci un messaggio: tutto quello che conta non muore.

martedì 13 maggio 2014

La musica dei sordi

La mia musica arrivava da un cd, da un vecchio vinile, dalla radio. In discoteca, al bar, sulla spiaggia, in macchina. Magari blues o rock o jazz. Un motivetto pop, un tormentone rap. Il timbro dei passi e dei pensieri. Perché in fondo, e per fortuna, governa me come tutti. Seducendoci o dandoci una scossa.
Che ci possiamo piangere o ballare, con la musica. Esplorare emozioni o godere di un guizzo di allegria. Difficile davvero immagine una vita senza suoni.
Lui l’ho incontrato e avuto al fianco, spesso. Senza sapere. Nato o diventato non so, comunque sordo. E a scoprirlo per un attimo ho avuto pudore della gioia di una melodia. Un senso di tristezza, quasi di smarrimento. Ma mi ha sorriso, a lungo, guardandomi spegnere lo stereo. Poi l’ho visto muoversi e ho letto quello che scriveva. Con un suo ritmo, con una sua armonia. Ecco la misteriosa dimensione del silenzio. Probabilmente con gli altri sensi più sviluppati, con la musica dei suoi pensieri, con una speciale fantasia del rumore. Qualcosa che a livello interiore canta e agita le note di uno spartito che non conosco ma mi affascina.
Penso a una voce muta che magari balena alla vista e sfiora la pelle. O tocca direttamente il cuore, chissà. E a come lui la elabora, con tutte quelle percezioni e quelle sfumature che mi sfuggono. Come se leggesse un pentagramma nuovo.

Così mi incammino a sognare tutti i mondi possibili, lo spazio di vibrazioni infinite, l’aria di emozioni indescrivibili. Con un po’ di commozione o di stupore. Con la consapevolezza che saprò sempre poco, troppo poco di tutta la musica dell’umanità.

sabato 10 maggio 2014

In jeans e maglietta

Era cresciuta nella ragnatela dell’eleganza d’abito e belletto, Annette.
Due donne, nonna e mamma, impeccabili nella cura delle forme con cui affacciarsi al mondo. Non che facessero parte della raffinata società dei salotti. Ne stavano, se mai, ai margini. In quella zona grigia che non vive la vera borgata e che tiene pronto il passo per oltrepassare il sottile confine. Un confine che poi la vita sembra rendere impermeabile a qualsiasi tentativo. Una di quelle condizioni che Annette, negli anni, ribattezzò di corridoio cieco.
Fiocchi di raso tra i capelli, scarpine di vernice e preziosi abiti tagliati e cuciti dalle provette mani di mamma e nonna facevano di Annette una bambola. Bella, che la natura già era stata generosa, ordinata e di buon guardaroba. Si permettevano quel lusso gestendo con rigore le poche risorse. Era essenziale, le ripetevano.
Ad Annette non dispiaceva la figura che le rimandava lo specchio. Eppure qualcosa di stonato le arrivava nei passi e nei gesti. Non si sentiva mai disinvolta, leggera, libera. Prima temeva di sporcarsi, poi di essere impacciata nei movimenti, poi di passare per superba o illusa. Era fuori posto, Annette. O almeno così prese a credere, tra amiche e amici che potevano rotolarsi nell’erba, sedersi su un muretto, tirare calci a una palla. Non si trovò meglio neanche nel tempo delle passeggiate al mare o delle serate da ballo. Intorno a lei erano tutti più semplici, sciolti. Giovani, le veniva da dire. Lei in confronto iniziava a vedersi come una signora in posa davanti alla macchina fotografica.
Ben presto le fu chiaro che non si trattasse solo di una sensazione di mancata gioventù.
Quello che l’eleganza le rubava era anche più della comodità o della semplicità. Perfino più dell’audacia con la quale ragazze e ragazzi della sua età interpretavano i più moderni costumi.
Stava negando o perdendo la verità. Come prima di lei avevano fatto la mamma e la nonna. Non c’era guardaroba che le potesse regalare una vita serena e sincera se non avesse fatto pace con le aspettative, con la realtà, con la natura. E, d’altra parte, Annette non vedeva granché che le mancasse in quei margini, se le due donne impeccabili non si fossero fatte un cruccio del dannato confine.
Annette voleva bene alla mamma e alla nonna ma sapeva che avrebbe dovuto trovare la
sua strada per dare un senso ai suoi giorni, per trovare gioia nelle compagnie che aveva, per esprimersi per quello che il suo cuore desiderava. Doveva forzare le regole, andarsi a prendere tutto quello che non aveva goduto, indossare qualche straccio che le consentisse di correre, sciogliere i capelli e lasciare che il vento facesse la sua parte.
Sarebbe costato qualche pena per loro ma non poteva evitarlo.

Quando sorprese la mamma sorridere dalla finestra mentre lei si allontanava in jeans e maglietta capì che il bene merita un atto di ribellione. Forse solo così anche la mamma, attraverso lei, aveva spezzato finalmente le catene.
(Liberamente ispirato da...Annette)

giovedì 8 maggio 2014

Tu chiamale, se vuoi, emozioni

Io posso chiamarli versi sciolti. Ma tu, se vuoi, chiamale emozioni. Fanno lo stesso effetto. Sono parole che arrivano con il ritmo perfetto nel momento opportuno. Come le carezze quando ne hai proprio voglia o bisogno.
Quelle che stanno nelle pagine di un libro, sulla bocca di un amico, nella canzone che passa in radio. O saltano sul palcoscenico quando dalla sala ti godi lo spettacolo.
Chissà chi le ha pensate e perché. Chissà da chi e da cosa erano ispirate. Ma che importa? Sono per te! Hanno la tua misura, sembrano cucite dalla tua sarta. Muovono il suono che ti piace e sono del tuo colore preferito. Che straordinaria combinazione. Magari pensavi pure di non meritarle o che il destino avverso non te le avrebbe mai portate. E invece ecco che si presentano, una vicina all’altra, belle e forti.
Non devi neanche più chiederti se sogni o sei desta. Il tuo cuore non si sbaglia, sei in piena realtà. Oh lo sai che forse sono solo parole, che non cambieranno la tua esistenza, che domani non si ripeteranno, che molto altro ancora resterà incompiuto, che avrai sempre speranze e desideri delusi. Ma che importa? Il brivido di un momento è già tanto, tantissimo, molto di più. E’ proprio quella cosa grande che quasi non sai tenere tra le mani. La gioia che alle volte neanche credevi di poter provare.
Roba che pare amore. Già. Per darti tutta quell’eccitazione e quella pace dev’essere amore o giù di lì. Ma che importa? Non serve sapere cos’è, trovare una definizione, individuare a che razza di sentimento appartiene quello stato di grazia. I versi sciolti sono sciolti. Praticamente liberi…e libera sei tu, di sentirli come ritieni meglio, di viverli senza troppe spiegazioni. Sono parole arrivate dritte al cuore e geniali per la tua mente in attesa, in ricerca, in ansia. Basta così, và bene così. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Se ti serviva una conferma, un conforto, uno stimolo sei accontentata.

Qualche volta un verso sciolto così, o un’emozione se ti garba di più, la chiami pacca sulla spalla. La brami, incroci le dita o la invochi. Talvolta finisce che te la scrivi. Et voilà.

martedì 6 maggio 2014

Un culo non fa primavera

Paola Bacchiddu ha postato su facebook il lato B per attirare l’attenzione e quindi meglio sostenere la lista Tsipras. Il bikini è stato un po’ una resa, pare. Dopo molto lavoro di comunicazione, la Bacchiddu ha capitolato a una verità nota (e inconfutabile): il corpo di donna parla la lingua più attraente.
D’altra parte ben potrebbe sostenersi che, al di là della motivazione, è nella sua libertà pubblicare in foto la sua avvenenza. Ciascuno poi è altrettanto libero di valutare come meglio ritiene una scelta ‘politica’ di questo tenore.
Intanto la Bacchiddu un paio di risultati li ha raggiunti: ora tutti parlano di lei e della lista Tsipras. Che alla fine, si sa, non conta che la comunicazione sia fatta bene ma che sia efficace. Potremmo discutere di quanti si fermeranno alle sue forme infischiandosene di quello che volevano veicolare per le europee ma non potremmo mai mettere in dubbio la potenza delle curve e delle pose.
Qualcuno si cimenta così a sdoganare le donne di sinistra dal rifiuto dell’immagine ammiccante e del voyeurismo maschile. Anche loro credono nei buoni risultati della seduzione, insomma. Oppure, si potrebbe supporre, sfruttano le naturali debolezze del sesso forte.

Lungi da un giudizio sulla Bacchiddu e sui guardoni del web quello che noto, tristemente, è che la politica ha sempre meno appeal. E di chi mandiamo in Europa continua a importarcene poco o niente. Un culo non fa primavera quindi non ci sarà altro schieramento che dovrà invocare una campagna elettorale scorretta. Al più potranno contrapporre un bel seno. La sostanza è che interessa più una foto sexy di un programma politico. E che i cittadini, tutti quanti, non sono poi diversi e migliori da quelli che li rappresentano…

sabato 3 maggio 2014

La libertà di parola

Che bella cosa…la sensibilità dell’intelligenza.
Adesso più che mai sono fiera del senso della misura. In gioventù l’istinto all’equilibrio mi faceva un po’ soffrire. O meglio mi faceva soffrire intuire che a molti il senno, l’approfondimento, la pacatezza, il beneficio del dubbio, l’ascolto, il rispetto, giungevano come ‘morbidezze’ pavide e sfuggenti.

Oggi che a tanti piaccia urlare, estremizzare, insultare, esercitare arroganza e coltivare la pretesa della ragione mi preoccupa, mi sconforta, mi sbalordisce ma non mi fa più sentire debole e insicura. Amo la mia ‘insicurezza’. Quella che mi porta a riflettere, a soppesare, a valutare le altrui posizioni, a prendere nota delle possibili giustificazioni, a cercare il confronto, a trovare il punto d’incontro.
Non ho mai creduto nel diritto a esprimere sempre e comunque qualcosa, qualsiasi stupidaggine insomma. E, ancor meno, alla possibilità di giudicare e condannare con leggerezza le idee o i fatti altrui. In verità ho sempre ritenuto ci volesse anche ‘stile’, in ogni manifestazione del pensiero. Mi feriva la sensazione che si scorgesse in questo una sorta di diplomazia magari ipocrita o opportunista ma non ho mai mollato. Troppa sicurezza mi fa paura, in chiunque e in ogni circostanza della vita.
La verità non è un tesoro che abbiamo in tasca. E considerando quanto possa essere facile sbagliare direi che sentirsi nel giusto con tanta leggerezza non è la cosa più saggia o più naturale del mondo.
Ecco, talvolta penso che anche per il cervello ci vorrebbe una spina che si possa infilare nella presa di corrente. Un rifornimento di energia potrebbe rivelarsi utile per un corretto funzionamento delle funzioni intellettive. Non scaglio pietre contro alcuno ma mi rasserena, appunto, essere in pace con certe smanie di arroganza tuttologa.
Capisco che il periodo è pieno di tormenti, che le lingue possano inferocirsi, che i sensi possano perdere il controllo, che i privilegi possano accecare però invoco un limite!
Siamo nell’epoca del chiasso, d’accordo. Ci hanno insegnato che per farci notare dobbiamo usare la voce grossa o sparare la frase più forte ma possiamo anche accorgerci che è una lezione da ignorare e combattere. In questo caso potremmo salire su un palco e gridare che è un’idiozia sbraitare inesistenti certezze.
Pian piano potremmo pure ritrovare il gusto della coerenza, tra dichiarazioni e comportamenti, tra posizioni verbali e vita reale. Sarebbe un vero salto di umanità e civiltà.
La libertà di parola è meravigliosa a patto si eserciti con correttezza e consapevolezza. Cum grano salis. Sui social media, in tv, in piazza. Invece cresce a dismisura la ferocia delle accuse, delle rivelazioni, delle miracolose ricette, dei colpi di genio. E intanto, nello scomposto bla bla generale, i topi ballano come se non ci fossero più gatti in circolazione. Questa è la grande tristezza: l’abuso delle parole ne ha impoverito l’efficacia.

La credibilità e l’autorevolezza stanno quasi sempre negli educati sussurri, abbiate cura di ricordarlo.