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venerdì 15 marzo 2013

Cupo cupo


Cupo cupo (o cupa cupa nelle varianti dialettali) corrisponde, se vogliamo trovare un parente vagamente più noto, al putipù campano.
E’ uno strumento musicale, più o meno rudimentale, della tradizionale popolare realizzato con un recipiente (spesso di terracotta o di latta) coperto da pelle di capra o da stoffa e da una canna legata al centro. Il suono è prodotto dallo sfregamento della canna che il suonatore esercita a mani nude e bagnate. I gesti richiedono un’abilità che solo il costume dei luoghi elargisce. Ci vogliono tecnica e sopportazione del dolore per suonare i cupi cupi, doti che i suonatori acquisivano per amore e per rispetto di antichi riti di comunicazione.
Musica di tutti, musica di strada. E’ la musica semplice e improvvisata che evoca la ricerca di espressioni emotive e di messaggio di ogni angolo del tempo e del mondo. La più affascinante, per cammino e simbologia. E forse anche la più difficile, così affidata a mezzi di fortuna e alla fatica delle mani.
Quella dei cupi cupi è una musica oscura, grave e fremente che spande nell’aria un richiamo primitivo. E’ la sapienza dei movimenti del suonatore a dare il ritmo e a trasmettere l’intensità della melodia ma in fondo è la stessa conoscenza antica delle occasioni a tradurre il significato e a depositarsi, chiara, sulla pelle di chi ascolta.
Ero curiosa, la prima volta. Ne avevo tanto sentire parlare del cupo cupo, occhi e orecchie avevano bisogno di metterne a fuoco l’energia e l’effetto. Lo ricordo ancora quel momento, in Basilicata. Un languore stupefatto che pulsava come quel rimbombo.

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