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giovedì 30 aprile 2015

La nobiltà del cameriere

C’era una volta l’impeccabile cameriere, gentleman del servizio, lavoratore elegante. Un provetto e fine conoscitore delle regole della tavola che porgeva ai commensali, magari su un vassoio d’argento, un concentrato di delizie in forma e sostanza. Danzava intorno alla tavola, scivolava lesto verso la cucina, rabboccava i bicchieri con garbo, taceva e sorrideva e parlava al momento e con il ritmo giusti. Maestro di cerimonia e di gentilezza, esperto di un galateo delle piccole e grandi cose che incantava.
Prezioso, scattante, adorabile. In quei tempi bui non poteva sedere al regale banchetto, vi partecipava con la presenza operosa e la gestione indispensabile. Avrebbe ben potuto però competere, con lor signori accomodati. Altroché. Da lui si sarebbe potuta apprendere l’arte, delle tovaglie, delle ceramiche e delle posate e anche quella del garbo, della discrezione, della cavalleria, della fierezza. Si, nel mestiere e nel portamento aveva tutta la raffinata dignità della propria bravura e del proprio stile. Chinava il capo, forse, ma di lui nessuno si sarebbe sognato di negare le virtù.

Venne l’ora delle illusioni, delle smanie e degli orgogli storti. Quella delle brutte maniere, dell’incostanza, della ribellione. Il momento del caos e delle false lusinghe, dei sogni sbagliati e delle realtà inesistenti. Lui prese a stufarsi, a fare andare le mani senza grazia, a muoversi come uno zombie dopo una sbronza, a odiare l’etichetta. Rinnegò l’amore, il talento, l’impegno, il dovere, il decoro, perfino il buon senso. Divenne goffo, maleducato, frettoloso, distratto, invadente, rabbioso, presuntuoso. E si sedette alla regale tavola ruttando, menando aria dal deretano, sputando avanzi nel piatto e frugandosi tra i denti a caccia di residui fastidiosi. A testa alta ma con il cervello vuoto e l’anima avvilita perché di lui più nessuno tesseva le lodi. Anzi. Spariti i commensali restò solo e inutile, attorcigliato al suo squallore.

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