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giovedì 7 marzo 2013

Il business della ripresa


C’erano una volta l’agricoltura, lo scambio, il lavoro, il piccolo commercio.
Poi è venuto il tempo dei grandi affari, delle illusioni, della pigrizia, della smania.
Dove è rimasta la terra sono nate distese monoculturali comode e redditizie per ridurre rischio e fatica e vendere il raccolto prima ancora della semina. Tutto in pasto all’industria che confeziona, surgela, inscatola e distribuisce nel mondo. Con buona pace della qualità e del gusto, naturalmente. Produzione su larga scala, si è cominciato a dire. Che coccolava il pensiero della miniera d’oro e ci faceva sprofondare nel baratro dei cercatori falliti.
Il contadino è diventato imprenditore nel modo peggiore possibile. Ha smesso di rispettare la terra e ha cominciato a strizzarla per ricavare in fretta tanti denari per investire in borsa. Ha smesso di amare l’aia e le galline e ha stipato i polli in enormi allevamenti prigione perché sfornassero uova a ripetizione. Ha smesso di andare al mercato a vendere la frutta di stagione di qualche albero, molto meglio trasformare l’intero podere in frutteto predestinato ai grandi stabilimenti che fanno tonnellate di marmellata.
Adesso la crisi è peggio della iattura della cattiva annata, della siccità o del gelo, tutte quelle avversità di natura che erano rovello per mio nonno.
Il pesce grosso nei decenni ha divorato il piccolo: la terra non era più dei contadini ma delle super aziende che dopo aver imposto la coltivazione hanno pagato sempre meno i prodotti. E oggi, con i consumi ridotti e la debacle generale del sistema, i pescecane non ritirano neanche più tutto ciò che l’agricoltore produce.
Risaie su risaie, per chilometri non intravedo altro, difficile perfino scorgere un piccolo orto. E il prezzo del riso crolla. Ricordo che qualche anno chiedevo ai risicoltori perché non diversificavano e non si rimettevano a pensare al chilometro zero, ai bisogni locali, a un commercio più ristretto ma forse più sostenibile…e mi rispondevano che ci volevano investimenti, competenze, risorse umane. Accidenti, come avranno fatto allora mio nonno e i suoi coetanei, poveri e con mezzi assai meno avanzati?
Di questi tempi evito di addentrarmi sulle storture della globalizzazione, sul tortuoso cammino delle merci e delle quote e delle logiche europee, ma è evidente che è ora di pigiare il piede sul freno per poi ripartire con ben altra prospettiva.
Più che lungimiranza, sensibilità e intraprendenza temo però che sia richiesta anche una qualche dose di fatica. Insomma, non sarà proprio questo il problema?
La terra è bassa, qualcuno lo mormora, altri lo gridano proprio. Meglio una onorevole laurea in disoccupazione, forse. O la chimera di una ricchezza che ci ha accecato e ora ci presenta anche il salatissimo conto.
Io francamente le mie braccia e la mia schiena le offrirei volentieri, alla terra. Possibilmente però vorrei lavorare la terra di una volta, non gli sterminati campi di soia alla moda. Considerando la mia passione per il latte potrei anche imparare a mungere le mucche, forse troverei occupazione in un lampo. I mungitori che conosco sono rigorosamente indiani e pakistani, loro non lo considerano un mestiere inaccettabile come gli italiani, trattano bene le bestie, potrebbero prendermi come apprendista.
Quando la smetteremo di ragionare in termini di “crescita” impossibile e inutile e inizieremo a pensare veramente a fare bene quello che serve?
Non è una logica piccola quella locale, è semplicemente logica.
Il business della ripresa è nell’economia reale.  

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