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sabato 7 giugno 2014

Questo è il mio paese

C’è un luogo cui appartieni nel momento stesso in cui ci metti piede. E gli appartieni senza essere in gabbia. Senza un indirizzo di residenza. Senza l’accento delle parole. Senza condividere i suoi costumi.
E’ un paese con una sola ossessione: quella di non essere schiavo della smania di piacere. Un paese che, prima di mostrare le sue virtù, respira grato quelle dell’ospite.
Un paese dove non ti invitano a grandi abbuffate per illuderti del loro affetto. Un paese che non ti spia dalle finestre, per intuire dai tuoi passi, forestiero, chi sei, da dove arrivi e perché. Un paese che non conosce falsi amori, non finge miserie, non cova invidie. Un paese dove conosci finalmente l’accoglienza. Senza tradizioni da osservare, gratitudini da dimostrare, apparenze da rispettare.
Un paese che non ha superbie sciocche, detti tristi e sciatterie vecchie. Ha sorrisi, mani e teste. Ha cuori che abbracciano solo se ne hanno voglia.
Un paese che non sopravvive solo nei doverosi ricordi, quelli simulati da chi se ne è andato, perché è un paese dal quale nessuno se ne và. Un paese dove chiunque è, finalmente, a casa.
E’ un vecchio borgo di case di pietra che si confondono con la montagna, affacciato su un grande specchio d’acqua dalle rive fiorite. Un villaggio che ha l’odore del mare. Una terra di verde pianura. Uno scrigno di sole, scorci e frescure. Una contrada che è quasi un distretto di New York.

Uno di quei posti minuscoli e immensi che non si devono celebrare. Che le
celebrazioni servono solo a quelli morti, con la caparbia pretesa di resuscitare a forza di commemorazioni. Un paese che nessuno ha mai raccontato, dipinto, cantato, portato in scena. Perché tutti sono così presi a vivere e a viverlo da non averne tempo, bisogno, desiderio.

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