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mercoledì 22 maggio 2013

U.S.A. l’appartenenza della volontà


Possiamo chiamarlo orgoglio americano, spirito di patria o, forse, strategia culturale della necessità. Non ho approfondito abbastanza storia e pensiero degli U.S.A. per permettermi una visione attendibile. Ne ho sempre e solo colto, se mai, un monito importante e, per molti versi, estremamente affascinante.
Non è questione di simpatia ma di realismo, innanzi tutto.
Il nazionalismo americano ha sempre stimolato interesse perché è espresso da una comunità di persone con radici, tradizioni e lingue molte diverse che hanno compiuto un vero e proprio processo di identificazione sotto la bandiera a stelle e strisce.
Non vi è dubbio, credo, che sia stato lungo e tormentato, che anzi non sia mai del tutto compiuto, che possa aver mortificato delle specificità, che porti con sé risvolti irrisolti, che richieda grande guida politica. Non c’è rosa senza spine, ecco.
Eppure è un popolo. O almeno come popolo lo consideriamo, a livello emotivo. I colori e i costumi si sono mescolati fino a far nascere l’impronta americana, la mentalità americana, la devozione americana. Le divisioni, forse anche lacerazioni, come le questioni difficili, di convivenza e di incastro, sono nel tessuto sociale ed economico ma vengono scarsamente percepite da fuori. Noi pensiamo agli “americani” come corpo unico pur se siamo consapevoli degli infiniti intrecci.
Probabilmente molte sofferte derivazioni hanno originato un desiderio intenso di terra e simboli di appartenenza. E, d’altra parte, una grande terra ha dato a tutti un senso di prospettiva possibile. Una combinazione che ha creato un legame stretto con il concetto di patria. Necessità e speranza sono motori potenti di viaggio e di aggregazione.
Però ho sempre pensato che il “sistema” ha retto perché ha anche imposto la responsabilità di quella scelta di appartenenza. Il sistema ha chiesto a tutti quelli che volevano essere o si dicevano cittadini americani di dimostrarlo ogni giorno, almeno al mondo. Si, se non poteva o voleva garantire che la fusione fosse perfetta all’interno, ha preteso che giungesse tale all’esterno.
Per fare questo non era necessario far rinnegare le origini ma canalizzare le risorse delle origini nell’americanità. D’altra parte, era essenziale sostenere con peculiare forza il rispetto delle regole e instillare il valore. Ecco, il passaggio chiave è proprio nel meccanismo, lungimirante, della tattica politico-culturale che pare vestirti di dignità quando ti fa sentire americano ma proprio per questo ti chiede in cambio di esserlo.
Sono meditazioni istintive, le mie. Ma in fondo è questa percezione a fiuto a contare molto. Oggi più che mai il “modello americano” suggerisce, nel bene e nel male intendiamoci, riferimenti significativi per il cammino di tutti.
“L’integrazione” nella quale ci avventuriamo senza orgoglio di popolo non è autentica. Rischia di essere solo un’operazione contingente e fasulla. Piaccia o non garbi le unioni si reggono solo intorno a un nucleo di condivisione reale.
Questione di volontà, l’appartenenza.

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