Questa
è la storia di uno di noi, che non era nato per caso in via Gluck ma aveva
scelto di risiedere nell’infinito. Quello che aveva nel cuore, in tasca e nelle
mani. Come avesse fatto a starci dentro e a portarlo a spasso è il risvolto
praticamente inspiegabile. Ed è bello così. Che quello che si svela talvolta si
sfilaccia come una vecchia stoffa malandata. Fatto sta che lui e l’infinito
avevano stretto una specie di alleanza e la vita si era dilatata come la
pupilla in visita dall’oculista.
Non
aveva più la ringhiera del balcone, si affacciava direttamente sul vuoto e non
precipitava. Che l’aria, amica dell’infinito, gli faceva da terra.
Era
un bel vedere, devo proprio dirlo. Pareva delirio e non lo era. Quasi ti
convinceva della magia dell’universo. E se proprio ti rimaneva il dubbio d’essere
in sogno ti dava i pizzicotti che sentivi, eccome, a dimostrazione che eri
sveglio.
Cosa
fosse capitato d’un tratto a quelle ali invisibili non mi era noto. Non lo
avvistavo più, in cammino o in volo. Eppure mi assicuravano che l’infinito e
lui erano ormai un corpo e un’anima quindi c’era. Da qualche parte.
Finalmente
l’ho rivisto e ho capito. Ero io ad aver smarrito il filo. Ad aver perso gli
occhiali spirituali, modello Vita con la
V maiuscola ovviamente. Sto molto meglio, anche nel dolore e
nella fatica, quando all’orizzonte c’è lui, che risiede nell’infinito.
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